lunedì 3 dicembre 2018

L'essere umano non è un pokèmon

Le “vecchie” generazioni come me (diciamo i millenials) sono cresciuti con l’idea che l’evoluzione fosse un processo naturale e migliorativo: mi riferisco alla classica illustrazione della scimmia che pian piano “evolve” e diventa sempre più simile all’uomo moderno, quasi come fosse un pokèmon destinato ad evolversi in modo lineare per stadi migliorativi, al fine di diventare sempre più potente e bravo.
Da qui si deduce, quindi, che sia esistita una sola tipologia di homo alla volta, che col tempo sia cambiata e diventata più tecnologica, più intelligente, più brava a comunicare e a procurarsi cibo, a costruirsi rifugi e abitazioni.
Mi dispiace rovinare la vostra infanzia sui sussidiari delle elementari ma la realtà e le scoperte fossili contraddicono fortemente questa visione della storia, che resta ancorata ad un pensiero pre-darwiniano intriso di teleologismo e di antropocentrismo.
Sapere per certo che l’essere umano derivi da un percorso lineare di progressivo miglioramento da un essere burbero e animalesco come un neanderthan a uno sofisticato e intelligente come un homo sapiens ci conferirebbe quella sensazione fantastica di dominatori del mondo ai vertici della creazione.
Oppure, credere che siamo stati creati già “umani”, dotati quindi di qualcosa di superiore e differente da tutto il resto del mondo animale ci renderebbe speciali, unici, con il diritto di poter primeggiare su ogni altra creatura del pianeta, quasi come se noi non facessimo parte del mondo in cui viviamo, ma semplicemente fosse altro da noi come una nostra esclusiva proprietà.
Ma i fatti, purtroppo, contrastano con queste visioni del mondo. Perché?
Noi oggi siamo l’unica specie di homo rimasta sulla Terra, ma le cose non sempre state così, infatti la nostra evoluzione non è avvenuta per successivi stadi migliorativi ma ha seguito un modello a cespuglio, un po' come hanno fatto molti altri esseri viventi, con specie diverse che sono convissute e si sono ibridate tra loro. Questa ramificazione è durata fino a 40.000 anni fa, un periodo che magari a noi sembra lunghissimo ma che in realtà è un soffio se si pensa alla storia del nostro pianeta e della vita che è nata.
Non sappiamo di preciso perché le altre specie si siano estinte o come sia avvenuto ciò, ci sono varie ipotesi a riguardo, però probabilmente non è perché noi eravamo i più belli, i più forti ed intelligenti, gli unici predestinati alla sopravvivenza.
Oggi sappiamo che circa 50.000 anni fa sul nostro pianeta convivevano almeno quattro tipi diversi di ominini (Homo sapiens in Africa, Homo neanderthalensis in Europa e Asia occidentale, Homo erectus in Asia sudorientale, Homo denisoviano in Asia orientale e probabilmente anche Homo floresiensis). (Gee H. 2016)
Per noi esseri umani diventa davvero difficile immaginare un passato lontano in cui convivevano sulla Terra diversi ominini differenti, che a volte si incontravano anche tra di loro. Siamo portati a pensarci dai tempi degli antichi egizi, considerando magari solo il mondo europeo e mediterraneo e dimenticandoci del resto dei continenti. Serve un notevole sforzo mentale per immaginarci un mondo molto più antico, lontano migliaia e migliaia di anni, un mondo molto diverso anche dal punto di vista climatico e ambientale.
Darwin, al contrario di quanto spesso si creda, non intendeva affatto l’evoluzione in senso finalistico bensì più come un’attività che avviene appunto in un presente continuo, momento per momento in una interazione costante tra l’ambiente e le creature che ne fanno parte. Il termine “evoluzione” era inteso come una “discendenza con modificazione” (Gee H. 2016) per cui evolvere significava crescere da una forma semplice ad una con un maggiore grado di complessità. Questo non significa che esista un senso direzionale preferenziale, una crescita continua verso la perfezione con un fine prestabilito: la nostra struttura è un’eredità della storia.
Gli stessi fossili che ritroviamo rappresentano solo una minima parte di quello che è successo in passato, infatti la fossilizzazione è un evento piuttosto raro perché può avvenire solo in certe condizioni e solo con la giusta roccia. Da questo si deduce che molte storie siano avvenute senza che abbiano lasciato qualcosa a testimonianza di ciò, cioè avrebbero potuto esistere ad esempio molti altri ominini di cui però non ne è rimasta traccia. È altresì facile cadere preda dei propri pregiudizi e cercare di far rientrare (magari anche in modo forzato) le testimonianze fossili nelle proprie rappresentazioni del mondo cadendo preda di bias da conferma e di altri errori cognitivi: si potrebbe attribuire maggiore importanza ad un fossile e ignorarne altri che potrebbero mettere in discussione la nostra teoria. I fossili non parlano da soli, siamo noi a farli parlare.
Infatti l’essere umano ha una forte e irrefrenabile tendenza a fare connessioni che non hanno riscontro nella realtà e a intuire strutture inesistenti, noi abbiamo bisogno di narrazioni, in questo campo come in altri, per spiegare e dare un senso alla nostra vita e alla realtà che ci circonda.
I precursori di Darwin cercavano di dare un senso alle scoperte fossili che stavano affiorando e contraddicevano le teorie contemporanee sull’eternità della specie e sulla creazione dell’universo di stampo religioso. Ad esempio postulavano la predeterminazione di ogni specie: il Creatore aveva deciso che una determinata specie dovesse vivere solo entro un certo periodo temporale, per poi estinguersi entro una data prestabilita. Oppure, ritenendo le famiglie tassonomiche delle espressioni delle essenze immutabili del piano della creazione dell’Onnipotente, che ogni differenziazione fosse solo una deviazione rispetto alla norma e comunque qualcosa di reversibile legato alle condizioni locali. (Bocchi, Ceruti. 2006)
Insomma, vennero create ipotesi ad hoc per evitare di destabilizzare la teoria predominante di allora, come spesso accade ogni differenza viene vista come devianza, una eccezione rispetto alla regola, fino al punto in cui il sistema vacilla e allora si devono per forza mettere in discussione le fondamenta di questa struttura di interpretazione della realtà.
Ancora oggi, dopo decenni di darwinismo, noto che spesso si fa fatica a capire e ad accettare il vero significato e il valore della selezione naturale e dell’evoluzione, così come il ruolo della contingenza e del caso nella storia del mondo.
La confusione spesso nasce dal fatto che la selezione naturale viene vista come una forza invisibile e direi quasi divina che opera sulla natura per farla cambiare nell’ottica di un miglioramento continuo in vista di una perfezione intesa sotto un punto di vista prettamente umano e antropocentrico. Non si riesce ad accettare il fatto che noi esseri umani siamo creature come le altre, per quanto dotate di una consapevolezza superiore e della facoltà di comprendere noi stessi, il mondo e di farci domande su questo. La natura potrebbe avere dei parametri di giudizio differenti dai nostri. Il nostro antropocentrismo spesso ci acceca: non esistono l’uomo e la natura separati, l’artificiale e il naturale, ma esiste il mondo con le sue creature che lo abitano, per cui siamo tutti fatti della stessa materia e tutti intimamente interconnessi, questo lo vediamo soprattutto nelle disgrazie: noi operiamo sul mondo con delle forze distruttive e poi da lì partono una serie di reazioni a catena che si ripercuotono su di noi.
Consideriamo inoltre le relazioni fra il genoma e il suo ambiente, che presentano un’intricata ecologia, sono sempre in relazione. Intere specie si sono estinte in breve tempo, così come ci sono invece batteri che vivono da milioni di anni. Il mondo è estremamente complesso, spesso imprevedibile e ricco di eventi che è impossibile far rientrare in una logica prestabilita e predeterminata.
Quindi l’evoluzione è un dato di fatto e negarla equivarrebbe a negare l’esistenza delle prove (c’è anche chi l’ha fatto sostenendo che i fossili siano stati appositamente messi lì da Satana per mettere alla prova la fede dei credenti).
Quello che, per l’appunto, non trova riscontro è il pregiudizio antropocentrico per cui noi esseri umani saremmo il vertice della creazione, derivante da un susseguirsi di stadi di sempre maggior perfezione. Una perfezione, tra l’altro, stabilita in modo retroattivo, avrebbe potuto anche andare diversamente, non vi era la necessità di arrivare alla creazione dell’uomo, che alla fine è risultata essere una “Specie imprevista” (per citare H.  Gee)
Mi sembra di notare che permanga ancora in sottofondo un modo di pensare derivato dall’essenzialismo di stampo platonico per cui tutte le forme di vita sul nostro pianeta e la loro varietà viene concepita come il riflesso di una serie limitata e numerabile di eide (essenze, forme) astoriche e atemporali. Secondo questa mentalità un essere vivente come l’uomo è stato creato con un’essenza umana immanente, che poi pian piano è migliorato nella postura e nella tecnologia ma la sua “umanità” è sempre rimasta la stessa. Questa essenza è qualitativamente diversa da quella, ad esempio, appartenente al cavallo, per cui questo animale possiede una “cavallinità” che lo qualifica e lo descrive come un cavallo, qualità intrinseca sempre esistita e che sempre esisterà.
Questo modo di pensare dualistico permea da parecchio tempo il nostro modo di ragionare occidentale e ne parlerò meglio un'altra volta, però basta pensare che tutti gli organismi oggi discendono da esseri unicellulari che abitavano la Terra milioni e milioni di anni fa per rendersi conto di come possa essere fuorviante un pensiero essenzialista, assoluto, dualistico e atemporale come questo, in un mondo in continuo cambiamento.
Il nostro futuro non è già scritto, possiamo ancora fare qualcosa per migliorare il nostro pianeta ponendo attenzione alle relazioni che ci legano indissolubilmente con questo strano mondo pieno di forme di vita diverse e mutevoli. Non tutto è però sotto il nostro diretto controllo, possiamo ipotizzare futuri più o meno probabili ma non un futuro determinato a priori, privilegiato perché va incontro ai nostri pregiudizi e al nostro desiderio di dare senso e significato alle nostre vite. Siamo noi, individualmente, che dobbiamo costruire il significato e lo scopo delle nostre esistenze e questo ci dà grande libertà ma anche un’enorme responsabilità oltre ad ansia e paura.
Se potessimo fare un salto nel passato e vivere da spettatori probabilmente ci stupiremmo non poco di quello che troveremmo, abituati come siamo a una visione statica e immutabile del mondo e delle sue forme di vita, soltanto perché la nostra memoria è limitatissima.
Per fare un esempio: le mele dolci e succose che mangiamo oggi non sono sempre esistite ma derivano da una selezione operata dall’uomo nel corso degli anni, così come le carote non sono sempre state arancioni e il mais come lo conosciamo oggi in passato era rosso e molto più piccolo.
Pensare in questo modo può scardinare e mettere in dubbio anche la nostra vita e la nostra identità: siamo abituati a pensare a noi stessi attraverso caratteristiche e categorie definite, con valori e modi di vedere il mondo dicotomici. “Io sono così, mi hanno educato in questo modo e la mia rappresentazione della realtà è questa”, però noi non siamo immutabili, neppure la nostra identità lo è e le priorità, gli obiettivi di vita e la visione del mondo possono cambiare continuamente perché l’ambiente influenza noi e noi influenziamo l’ambiente (inteso in senso ampio come tutto ciò che non sono io), e questa relazione continua ha influenzato l’evoluzione ad esempio un maggiore introito calorico dato da un migliore impiego delle tecnologie (come il fuoco) ha reso possibile un migliore sviluppo cerebrale, che a sua volta ha migliorato le abilità tecniche e via dicendo; tutto questo in un continuo meccanismo di feedback e influenze reciproche che ci ha portato dove siamo ora.

           Bibliografia per approfondire:
Bocchi Gianluca, Ceruti Mauro. Origini di storie. Feltrinelli. 2006
Gee Henry. La specie imprevista. Il mulino. 2013 – 2016
Pievani Telmo. Homo sapiens e altre catastrofi. Meltemi. 2002 - 2018