mercoledì 23 gennaio 2019

"Ignore this story"


Immaginiamo di aprire la nostra bella app di Instagram e andiamo a vedere che storie nuove circolettate ci sono da guardare. Ne apriamo una e, su un fondo bianco, leggiamo le parole “Ignora questa storia”.
Ah, cioè? Ma non è possibile ignorare questa storia perché ormai io l’ho già vista. E quindi?
Ecco, questo è un esempio di quello che si definisce “doppio vincolo” o “double bind” o ancora “doppio legame”. Attenzione, però, non confondiamoci con il doppio legame che i chimici conosceranno bene, ovvero quel legame che coinvolge un numero doppio di elettroni rispetto ad un legame singolo (se volete approfondire vi consiglio di chiedere meglio a qualcuno con competenze in materia superiori alle mie, ho vaghissimi ricordi di quello che ho studiato al liceo parecchi anni fa).
Benissimo, per quanto riguarda il doppio legame in psicologia, questo è stato studiato e approfondito da Gregory Bateson[1] e dalla scuola di Palo Alto (in California) negli anni Sessanta del secolo scorso, anche se il primo articolo è stato pubblicato nel 1956 insieme a D.D. Jackson, J. Weakland e J. Haley.
Il doppio vincolo si verifica quando ci si trova in una situazione per cui qualunque cosa fai, stai sbagliando. Insomma, si creano due richieste contraddittorie per cui una persona asserisce qualcosa e asserisce qualcosa sull’asserzione, ma le due asserzioni si contraddicono a vicenda. Per ubbidire devi disobbedire.
Vi ho fatto venire il mal di testa? Lo immaginavo.
Un esempio di doppio vincolo è quando una persona comunica un messaggio preciso a livello verbale e il suo opposto a livello non verbale, oppure quando il comando contraddice sé stesso: quante volte i nostri genitori ci hanno detto “devi essere spontaneo!”. Bene, la spontaneità non può essere comandata, se qualcuno ti obbliga ad essere spontaneo allora tu non sei più spontaneo ma stai eseguendo un ordine che viene impartito da un’altra persona.
Bateson ha fatto molti esempi di doppio vincolo e ha approfondito questo paradosso comunicativo soprattutto per quanto riguarda l’eziologia della schizofrenia.
Ci tengo a precisare che la scuola di Palo Alto non ha mai affermato di aver trovato la causa unica di questa grave patologia né mai affermato che il doppio vincolo “causi” la schizofrenia, piuttosto ha voluto discutere di come e perché un doppio vincolo possa insorgere in una certa situazione familiare, fornendo esempi tratti da casi clinici nel saggio “Verso una teoria della schizofrenia” del 1956.
La novità introdotta da Bateson e collaboratori è stata quella di adottare un punto di vista differente da quello allora predominante, ossia la visione legata alla psicoanalisi per cui la schizofrenia sia innanzitutto un disturbo intrapsichico (qualcosa che “non funziona bene” nella singola persona).
Anziché vedere la patologia come qualcosa di “sbagliato” all’interno della persona che poi provoca un comportamento deviante, l’approccio batesoniano è inverso: si domanda quali esperienze interpersonali (quindi le relazioni esterne con altre persone) provocherebbero il comportamento che poi è interpretato e diagnosticato come schizofrenia.
È una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere la patologia: anziché considerare il singolo soggetto il discorso si amplia e si sposta sulle dinamiche relazionali, soprattutto familiari.
Se ipotizziamo che il comportamento dell’individuo sia in qualche modo adattivo all’ambiente in cui vive allora lo schizofrenico vive in una situazione paradossale per cui il suo modo di fare è appropriato al contesto.
Quindi, visto che il modo di comportarsi della persona appare come qualcosa di incomprensibile, allora le relazioni in cui vive dovranno riflettere questa incomprensibilità, ovvero saranno caratterizzate dal doppio vincolo.
In “Pragmatica della comunicazione umana” (pag. 202) sono individuati gli elementi indispensabili per descriverlo:
1.       “Due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte.”
2.       “In un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni si escludono a vicenda”.
3.       “Si impedisce al recettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio”
Detto in altri termini: le relazioni che coinvolgono il soggetto devono essere significative e vitali, se uno sconosciuto dovesse adottare questo tipo di comunicazione con noi probabilmente verrebbe ignorato o comunque non avrebbe grossi impatti su noi stessi.
I messaggi devono essere contraddittori e devono creare una situazione per cui è impossibile eseguire ciò che ci viene richiesto.
Infine non deve essere possibile metacomunicare, cioè parlare della comunicazione, ovvero dire alla persona: “ma che cavolo stai dicendo, non vedi che tu mi poni in una situazione per cui qualunque cosa faccia sbaglio sempre?”.
Ovviamente questo genere di comunicazione paradossale deve svilupparsi per molto tempo, in particolar modo dall’infanzia, in cui deve prevalere questo specifico modello di interazione.
Il poveretto si ritrova quindi in una situazione in cui il comportamento schizofrenico diventa l’unico modo in cui possa esprimersi.
A questo proposito, un bel film che consiglio di guardare è “Shine”, 1996, diretto da Scott Hicks, ambientato in Australia agli inizi degli anni Sessanta, racconta la vita di un pianista inserito in una relazione paradossale con la sua famiglia, che lo costringe a manifestare un comportamento patologico.
Alla fine, oltre al discorso della schizofrenia, perché ci interessa questo aspetto della comunicazione? Ho voluto approfondire il doppio vincolo anche come occasione per riflettere sugli aspetti comunicativi e sulle modalità di interazione che noi e gli altri usiamo tutti i giorni.
Spesso, infatti, facciamo fatica a comunicare sulla comunicazione (metacomunicare): se qualcuno ci dice verbalmente qualcosa ma non verbalmente dice l’opposto, siamo spinti a cercare di comprendere il messaggio in modi differenti piuttosto che rivelare il paradosso esprimendolo a voce alta.
Magari crediamo che ci siamo lasciati sfuggire qualcosa che in realtà dovevamo sapere, o che altri ci tengano nascoste informazioni vitali, diventando ossessionati dalla necessità di scoprire significati nascosti in ciò che ci accade intorno, ignorando magari i veri problemi reali, del tutto inconsapevoli della contraddizione che la situazione comporta.

Bibliografia per approfondire:
-          Beavin J.H., Jackson D.D., Watzlawick P. Pragmatica della comunicazione umana. 1971, Casa editrice Astrolabio.
-          Bateson G. Verso un’ecologia della mente. 1976, Apelphi.



[1] Bateson è stato un biologo, antropologo, sociologo e psicologo britannico e i suoi studi hanno spaziato tra diverse discipline, apportando parecchi punti di vista innovativi soprattutto per quanto riguarda la terapia allora dominante in ambito psicoterapeutico, fortemente legata alla psicanalisi, contribuendo alla nascita della terapia sistemico-relazionale.


giovedì 3 gennaio 2019

Ma a me cosa interessa? Ovvero l'importanza della divulgazione


Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, siamo immersi in un contesto sociale e culturale in cui diventa davvero fondamentale lo sviluppo di un pensiero critico, per mettere sempre in discussione quello che ci sembra scontato. Insomma, circondati come siamo da claim, marketing, eccesso di informazioni, fake news, bufalari, aspiranti dominatori del mondo et similia, abbiamo bisogno più che mai di un po' di sano scetticismo (e anche di un po' di sana autoironia, data la cospicua presenza sul web di musoni sempre all’attacco, ma questo è un altro discorso).
E chi meglio del metodo scientifico accompagnato dallo sviluppo di un pensiero critico e non auto-confermante può aiutarci in questo processo senza fine? Già, perché quello della continua messa in discussione delle nostre credenze e dell’approfondimento della comprensione del mondo in cui viviamo è un processo infinito, non esiste una meta in cui saremo sicuri di sapere tutto (anzi, probabilmente sarà il momento di maggiore sbaglio) perché “più cose scopriamo e più domande ci facciamo” per citare Rick Dufer.
Dunque, se davvero il nostro obiettivo è quello di migliorare noi stessi e magari incoraggiare le persone a noi vicine a fare altrettanto, personalmente credo che seguire e approfondire più discipline, parlare con persone differenti, aprirsi al mondo e a nuove opportunità conoscitive con vari mezzi (non solo libri ma anche film, serie tv, podcast, video…) possa essere una delle strategie per essere un pochino più curiosi del mondo e di noi stessi.
Inoltre oggi è fondamentale creare un “ponte” tra la comunità scientifica e le persone “comuni” per varie ragioni.
In primo luogo, per quanto riguarda la ricerca finanziata con i soldi pubblici, è auspicabile che le persone vengano informate sulle modalità e gli scopi per cui i finanziamenti statali siano utilizzati, in modo tale da ricevere una sorta di “restituzione” da parte dei ricercatori.
In secondo luogo informare in modo corretto ed esaustivo le persone sulla ricerca scientifica in corso penso che possa aiutare a prevenire eventuali episodi di ribellione e tentativi di elaborare varie “teorie del complotto” del genere “non cielo dikono” perché chissà che cose strane e malvagie si celano nei laboratori o chissà che scoperte sensazionali sono state fatte ma la malvagia lobby (peraltro inesistente) di una non meglio precisata Comunità Scientifica vuole insabbiare per tornaconto personale. Episodi di questo genere si sono già verificati e i mass media hanno amplificato il fenomeno per catturare l’attenzione e l’audience. Ecco, spesso esiste questa visione dello “scienziato pazzo, sadico e malvagio” probabilmente ereditata dall’immaginario di Frankenstein in cui il perfido dottore voleva andare contro le leggi di Dio e della Natura creando la vita da dei cadaveri.
In passato vi erano ovviamente meno controlli nella ricerca scientifica, si faceva tutto un po' così, senza norme precise in materia di etica o di sicurezza. E infatti ci sono state sicuramente conseguenze negative, ma da qualche tempo a oggi la situazione è cambiata: sono stati istituiti comitati etici e stringenti norme in materia di sicurezza per cui la ricerca è fatta secondo il principio di precauzione. E questo è stato un vero traguardo nella ricerca per renderla il più equa e sicura possibile, cosa che purtroppo non accade in altri posti fuori dall’UE. (in Cina e in altri paesi le regole sono differenti e le tutele sono minori)
 Molti scenari caratterizzati da una forte carica emotiva restano a lungo nella memoria collettiva e culturale, pensiamo ad esempio in tempi più recenti all’orribile mondo degli organismi geneticamente modificati: fragole che sanno di pesce, pomodori che contengono antigelo, ortaggi giganti e creature strane che domineranno il mondo se non verranno controllate. Faccio davvero fatica a trovare persone senza competenze in materia di biotecnologie che posseggano informazioni anche solo lontanamente vicine alla verità su questi OGM.
Divulgare il metodo scientifico, le metodologie utilizzate, la presenza costante di comitati etici e di sicurezza a controllo della ricerca diventa fondamentale in un mondo in cui le fake news e la “misinformation” dominano spesso le discussioni. Certamente esisteranno complotti, sicuramente ci sono in gioco degli interessi economici di un certo livello ma il mondo è molto più complesso di come si possa credere, esistono varie sfumature di grigio ed è difficile che un complotto non venga prima o poi a galla.
Divulgare significa anche creare delle occasioni di dubbi, in cui la persona capisce di non aver capito, quindi potrebbe essere spinta ad approfondire l’argomento, se sufficientemente interessata. Oppure, nel caso di ragazzi giovani, potrebbe far nascere in loro la passione per un determinato ambito scientifico o umanistico e potrà indirizzarli meglio in merito alle loro scelte universitarie e professionali.
Se diamo un occhio ai social network (Facebook, Instagram, You Tube, Telegram…) ci rendiamo conto che la gente vuole sapere, ha bisogno di trovare un significato a ciò che gli accade, ma ha anche la necessità che questo gli venga spiegato non con un linguaggio tecnico e specialistico ma più vicino alla narrazione.
E questo lo sanno benissimo i costruttori di teorie pseudoscientifiche e alternative: per un non addetto ai lavori trovarsi davanti una risma di studi scientifici in inglese che non si sa seppure leggere o interpretare correttamente è estremamente meno interessante e coinvolgente di una singola narrazione, carica emotivamente, che “spiega” tutto in poche frasi apparentemente coerenti.
Ed è così che è facilissimo assomigliare al memabile pikachu sorpreso quando sembra che il guru di turno abbia fatto la scoperta del secolo, basandosi su dati magari corretti ma stravolgendone il senso o scambiando la correlazione per la causalità. Insomma, è come decorare con la ghiaccia reale colorata una torta a tre piani fatta di polistirolo: esteticamente è meravigliosa, colpisce l’occhio ma non provarci nemmeno a tagliarne una fetta o l’illusione sparirebbe in un lampo di amarezza, lasciandoci la bocca asciutta e la delusione di chi è stato ingannato.
Quindi, ripeto, la divulgazione oggi, in tutti i campi del sapere, è necessaria più che mai, soprattutto per renderci consapevoli che tutti, scienziati compresi (ecco perché esistono cose carine come la peer review o le revisioni sistematiche: un solo studio non significa nulla, deve essere replicato e confermato o confutato e criticato da altri studi di altri ricercatori) siamo suscettibili di fare errori, di cadere nei bias e nelle illusioni cognitive, perché il nostro punto di vista è parziale e determinato dalle nostre esperienze e dai nostri modi di pensare e di vedere la realtà.
Rendersi conto di quanto poco sappiamo e di quanto siamo limitati può contribuire a invogliarci ad approfondire, a non credere acriticamente al primo ciarlatano, anche se le sue “argomentazioni” sembrano avere senso ma non esistono delle prove valide a sostegno.
Un bravo divulgatore dovrebbe utilizzare un linguaggio comprensibile e sfruttare anche la carica emotiva trasmessa dalla sua personale passione verso la disciplina al fine di fornire gli strumenti (come il pensiero critico, lo scetticismo…) alle persone affinché queste acquisiscano le capacità per cercarsi da soli le risposte alle loro domande, conoscendo sempre un pochino meglio il mondo circostante e loro stesse.
In questa accezione il soggetto è visto come un soggetto attivo, capace di un deutero apprendimento per citare Bateson, non come un passivo fruitore di contenuti da memorizzare per aumentare la propria erudizione personale.