lunedì 3 dicembre 2018

L'essere umano non è un pokèmon

Le “vecchie” generazioni come me (diciamo i millenials) sono cresciuti con l’idea che l’evoluzione fosse un processo naturale e migliorativo: mi riferisco alla classica illustrazione della scimmia che pian piano “evolve” e diventa sempre più simile all’uomo moderno, quasi come fosse un pokèmon destinato ad evolversi in modo lineare per stadi migliorativi, al fine di diventare sempre più potente e bravo.
Da qui si deduce, quindi, che sia esistita una sola tipologia di homo alla volta, che col tempo sia cambiata e diventata più tecnologica, più intelligente, più brava a comunicare e a procurarsi cibo, a costruirsi rifugi e abitazioni.
Mi dispiace rovinare la vostra infanzia sui sussidiari delle elementari ma la realtà e le scoperte fossili contraddicono fortemente questa visione della storia, che resta ancorata ad un pensiero pre-darwiniano intriso di teleologismo e di antropocentrismo.
Sapere per certo che l’essere umano derivi da un percorso lineare di progressivo miglioramento da un essere burbero e animalesco come un neanderthan a uno sofisticato e intelligente come un homo sapiens ci conferirebbe quella sensazione fantastica di dominatori del mondo ai vertici della creazione.
Oppure, credere che siamo stati creati già “umani”, dotati quindi di qualcosa di superiore e differente da tutto il resto del mondo animale ci renderebbe speciali, unici, con il diritto di poter primeggiare su ogni altra creatura del pianeta, quasi come se noi non facessimo parte del mondo in cui viviamo, ma semplicemente fosse altro da noi come una nostra esclusiva proprietà.
Ma i fatti, purtroppo, contrastano con queste visioni del mondo. Perché?
Noi oggi siamo l’unica specie di homo rimasta sulla Terra, ma le cose non sempre state così, infatti la nostra evoluzione non è avvenuta per successivi stadi migliorativi ma ha seguito un modello a cespuglio, un po' come hanno fatto molti altri esseri viventi, con specie diverse che sono convissute e si sono ibridate tra loro. Questa ramificazione è durata fino a 40.000 anni fa, un periodo che magari a noi sembra lunghissimo ma che in realtà è un soffio se si pensa alla storia del nostro pianeta e della vita che è nata.
Non sappiamo di preciso perché le altre specie si siano estinte o come sia avvenuto ciò, ci sono varie ipotesi a riguardo, però probabilmente non è perché noi eravamo i più belli, i più forti ed intelligenti, gli unici predestinati alla sopravvivenza.
Oggi sappiamo che circa 50.000 anni fa sul nostro pianeta convivevano almeno quattro tipi diversi di ominini (Homo sapiens in Africa, Homo neanderthalensis in Europa e Asia occidentale, Homo erectus in Asia sudorientale, Homo denisoviano in Asia orientale e probabilmente anche Homo floresiensis). (Gee H. 2016)
Per noi esseri umani diventa davvero difficile immaginare un passato lontano in cui convivevano sulla Terra diversi ominini differenti, che a volte si incontravano anche tra di loro. Siamo portati a pensarci dai tempi degli antichi egizi, considerando magari solo il mondo europeo e mediterraneo e dimenticandoci del resto dei continenti. Serve un notevole sforzo mentale per immaginarci un mondo molto più antico, lontano migliaia e migliaia di anni, un mondo molto diverso anche dal punto di vista climatico e ambientale.
Darwin, al contrario di quanto spesso si creda, non intendeva affatto l’evoluzione in senso finalistico bensì più come un’attività che avviene appunto in un presente continuo, momento per momento in una interazione costante tra l’ambiente e le creature che ne fanno parte. Il termine “evoluzione” era inteso come una “discendenza con modificazione” (Gee H. 2016) per cui evolvere significava crescere da una forma semplice ad una con un maggiore grado di complessità. Questo non significa che esista un senso direzionale preferenziale, una crescita continua verso la perfezione con un fine prestabilito: la nostra struttura è un’eredità della storia.
Gli stessi fossili che ritroviamo rappresentano solo una minima parte di quello che è successo in passato, infatti la fossilizzazione è un evento piuttosto raro perché può avvenire solo in certe condizioni e solo con la giusta roccia. Da questo si deduce che molte storie siano avvenute senza che abbiano lasciato qualcosa a testimonianza di ciò, cioè avrebbero potuto esistere ad esempio molti altri ominini di cui però non ne è rimasta traccia. È altresì facile cadere preda dei propri pregiudizi e cercare di far rientrare (magari anche in modo forzato) le testimonianze fossili nelle proprie rappresentazioni del mondo cadendo preda di bias da conferma e di altri errori cognitivi: si potrebbe attribuire maggiore importanza ad un fossile e ignorarne altri che potrebbero mettere in discussione la nostra teoria. I fossili non parlano da soli, siamo noi a farli parlare.
Infatti l’essere umano ha una forte e irrefrenabile tendenza a fare connessioni che non hanno riscontro nella realtà e a intuire strutture inesistenti, noi abbiamo bisogno di narrazioni, in questo campo come in altri, per spiegare e dare un senso alla nostra vita e alla realtà che ci circonda.
I precursori di Darwin cercavano di dare un senso alle scoperte fossili che stavano affiorando e contraddicevano le teorie contemporanee sull’eternità della specie e sulla creazione dell’universo di stampo religioso. Ad esempio postulavano la predeterminazione di ogni specie: il Creatore aveva deciso che una determinata specie dovesse vivere solo entro un certo periodo temporale, per poi estinguersi entro una data prestabilita. Oppure, ritenendo le famiglie tassonomiche delle espressioni delle essenze immutabili del piano della creazione dell’Onnipotente, che ogni differenziazione fosse solo una deviazione rispetto alla norma e comunque qualcosa di reversibile legato alle condizioni locali. (Bocchi, Ceruti. 2006)
Insomma, vennero create ipotesi ad hoc per evitare di destabilizzare la teoria predominante di allora, come spesso accade ogni differenza viene vista come devianza, una eccezione rispetto alla regola, fino al punto in cui il sistema vacilla e allora si devono per forza mettere in discussione le fondamenta di questa struttura di interpretazione della realtà.
Ancora oggi, dopo decenni di darwinismo, noto che spesso si fa fatica a capire e ad accettare il vero significato e il valore della selezione naturale e dell’evoluzione, così come il ruolo della contingenza e del caso nella storia del mondo.
La confusione spesso nasce dal fatto che la selezione naturale viene vista come una forza invisibile e direi quasi divina che opera sulla natura per farla cambiare nell’ottica di un miglioramento continuo in vista di una perfezione intesa sotto un punto di vista prettamente umano e antropocentrico. Non si riesce ad accettare il fatto che noi esseri umani siamo creature come le altre, per quanto dotate di una consapevolezza superiore e della facoltà di comprendere noi stessi, il mondo e di farci domande su questo. La natura potrebbe avere dei parametri di giudizio differenti dai nostri. Il nostro antropocentrismo spesso ci acceca: non esistono l’uomo e la natura separati, l’artificiale e il naturale, ma esiste il mondo con le sue creature che lo abitano, per cui siamo tutti fatti della stessa materia e tutti intimamente interconnessi, questo lo vediamo soprattutto nelle disgrazie: noi operiamo sul mondo con delle forze distruttive e poi da lì partono una serie di reazioni a catena che si ripercuotono su di noi.
Consideriamo inoltre le relazioni fra il genoma e il suo ambiente, che presentano un’intricata ecologia, sono sempre in relazione. Intere specie si sono estinte in breve tempo, così come ci sono invece batteri che vivono da milioni di anni. Il mondo è estremamente complesso, spesso imprevedibile e ricco di eventi che è impossibile far rientrare in una logica prestabilita e predeterminata.
Quindi l’evoluzione è un dato di fatto e negarla equivarrebbe a negare l’esistenza delle prove (c’è anche chi l’ha fatto sostenendo che i fossili siano stati appositamente messi lì da Satana per mettere alla prova la fede dei credenti).
Quello che, per l’appunto, non trova riscontro è il pregiudizio antropocentrico per cui noi esseri umani saremmo il vertice della creazione, derivante da un susseguirsi di stadi di sempre maggior perfezione. Una perfezione, tra l’altro, stabilita in modo retroattivo, avrebbe potuto anche andare diversamente, non vi era la necessità di arrivare alla creazione dell’uomo, che alla fine è risultata essere una “Specie imprevista” (per citare H.  Gee)
Mi sembra di notare che permanga ancora in sottofondo un modo di pensare derivato dall’essenzialismo di stampo platonico per cui tutte le forme di vita sul nostro pianeta e la loro varietà viene concepita come il riflesso di una serie limitata e numerabile di eide (essenze, forme) astoriche e atemporali. Secondo questa mentalità un essere vivente come l’uomo è stato creato con un’essenza umana immanente, che poi pian piano è migliorato nella postura e nella tecnologia ma la sua “umanità” è sempre rimasta la stessa. Questa essenza è qualitativamente diversa da quella, ad esempio, appartenente al cavallo, per cui questo animale possiede una “cavallinità” che lo qualifica e lo descrive come un cavallo, qualità intrinseca sempre esistita e che sempre esisterà.
Questo modo di pensare dualistico permea da parecchio tempo il nostro modo di ragionare occidentale e ne parlerò meglio un'altra volta, però basta pensare che tutti gli organismi oggi discendono da esseri unicellulari che abitavano la Terra milioni e milioni di anni fa per rendersi conto di come possa essere fuorviante un pensiero essenzialista, assoluto, dualistico e atemporale come questo, in un mondo in continuo cambiamento.
Il nostro futuro non è già scritto, possiamo ancora fare qualcosa per migliorare il nostro pianeta ponendo attenzione alle relazioni che ci legano indissolubilmente con questo strano mondo pieno di forme di vita diverse e mutevoli. Non tutto è però sotto il nostro diretto controllo, possiamo ipotizzare futuri più o meno probabili ma non un futuro determinato a priori, privilegiato perché va incontro ai nostri pregiudizi e al nostro desiderio di dare senso e significato alle nostre vite. Siamo noi, individualmente, che dobbiamo costruire il significato e lo scopo delle nostre esistenze e questo ci dà grande libertà ma anche un’enorme responsabilità oltre ad ansia e paura.
Se potessimo fare un salto nel passato e vivere da spettatori probabilmente ci stupiremmo non poco di quello che troveremmo, abituati come siamo a una visione statica e immutabile del mondo e delle sue forme di vita, soltanto perché la nostra memoria è limitatissima.
Per fare un esempio: le mele dolci e succose che mangiamo oggi non sono sempre esistite ma derivano da una selezione operata dall’uomo nel corso degli anni, così come le carote non sono sempre state arancioni e il mais come lo conosciamo oggi in passato era rosso e molto più piccolo.
Pensare in questo modo può scardinare e mettere in dubbio anche la nostra vita e la nostra identità: siamo abituati a pensare a noi stessi attraverso caratteristiche e categorie definite, con valori e modi di vedere il mondo dicotomici. “Io sono così, mi hanno educato in questo modo e la mia rappresentazione della realtà è questa”, però noi non siamo immutabili, neppure la nostra identità lo è e le priorità, gli obiettivi di vita e la visione del mondo possono cambiare continuamente perché l’ambiente influenza noi e noi influenziamo l’ambiente (inteso in senso ampio come tutto ciò che non sono io), e questa relazione continua ha influenzato l’evoluzione ad esempio un maggiore introito calorico dato da un migliore impiego delle tecnologie (come il fuoco) ha reso possibile un migliore sviluppo cerebrale, che a sua volta ha migliorato le abilità tecniche e via dicendo; tutto questo in un continuo meccanismo di feedback e influenze reciproche che ci ha portato dove siamo ora.

           Bibliografia per approfondire:
Bocchi Gianluca, Ceruti Mauro. Origini di storie. Feltrinelli. 2006
Gee Henry. La specie imprevista. Il mulino. 2013 – 2016
Pievani Telmo. Homo sapiens e altre catastrofi. Meltemi. 2002 - 2018

lunedì 24 settembre 2018

I bisogni non sono tutti uguali


Un bisogno può essere definito genericamente come una condizione fisiologica di carenza e di necessità. Maslow (1954), in particolare, ha costruito una piramide dei bisogni, organizzati gerarchicamente in (partendo dalla base): fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di auto-realizzazione.
I bisogni primari sono quelli fisiologici, necessari per la sopravvivenza fisica (bere, mangiare...), mentre i secondari riguardano la sfera sociale e relazionale (appartenenza ad un gruppo sociale, sicurezza ed approvazione...).
I terziari, infine, sono transpersonali e riguardano l'autoaffermazione, sono legati alla promozione della salute e allo sviluppo psichico e spirituale. Ovviamente si tratta di bisogni tipicamente umani e mirano alla ricerca consapevole del significato della propria esistenza, in una costruzione continua tra se stessi e l'ambiente (inteso come tutto ciò che ci circonda) volta al miglioramento della qualità della vita.
Implicano quindi una esigenza di sviluppo, di crescita e di costruzione nonché condivisione di significati: tutto ciò si tramuta in una spinta interiore ineludibile volta a capire meglio se stessi e il mondo in cui viviamo.
Se i bisogni primari e secondari sono in qualche modo passivi e improntati sul soddisfacimento di carenze, quelli terziari richiedono un impegno attivo e in prima persona del soggetto, con tutte le difficoltà che ne conseguono.
Il passaggio al gradino più alto della gerarchia dei bisogni implica il soddisfacimento e l'affrancamento dai bisogni inferiori, in particolare per quanto riguarda quelli terziari è fondamentale aver sviluppato la consapevolezza che la propria vita non è solo un rincorrersi di bisogni o di carenze di qualsiasi tipo da soddisfare (come il bisogno di cambiare costantemente smartphone o comprare abiti nuovi tutti i sabati), quanto piuttosto la ricerca di qualcosa di positivo, che contribuisca a migliorare sé e il mondo, come l'esplorazione attiva della realtà, il senso del meraviglioso e la conoscenza di se stessi e degli altri.

lunedì 10 settembre 2018

L' omosessualità è "innaturale"?

Pochi giorni fa ho letto un articolo in cui spiegavano come in India una legge avesse abolito il reato di omosessualità.
Un reato, come quello di cui Oscar Wilde fu accusato ai suoi tempi e per cui è stato imprigionato: in carcere solo per aver osato amare un ragazzo.
Recentemente il Papa ha affermato che l'omosessualità andrebbe curata con la psichiatra, sempre che non venga "diagnosticata" in età adulta, in quel caso potrebbe essere cronica e incurabile.
Non sono né medico né psichiatra ma dubito fortemente che questo presunto "disturbo" rientri tra le patologie.
C'è poi chi si appella al fatto che avere rapporti con individui dello stesso sesso non sia "naturale", anzi, spesso è proprio questa la motivazione principale: sono atti "contro natura" (e quindi contro la legge di Dio, per i credenti).
Dunque, cosa si intende per "naturalità" della sessualità? "Gli animali non fanno certe cose! Non sono corrotti dal peccato, dai vizi di noi umani!".
Beh, a quanto mi risulta questo è solo un pregiudizio infondato, in quanto in moltissime specie di animali (si stima intorno alle 1.500) sono stati osservati comportamenti sessuali tra individui di pari genere. Ma non solo, si verificano anche episodi frequenti di autoerotismo, uso di sex toys, bisessualità, rapporti orali, prostituzione, orge, necrofilia, pedofilia, rapporti tra specie differenti e voyeurismo. (Ovviamente questo non legittima gli stessi comportamenti nell'uomo, visto che siamo dotati di libero arbitrio e senso etico).
I bonobo, ad esempio, sono pansessuali e risolvono spesso le tensioni attraverso atti sessuali anziché con la violenza.
Anche nelle società umane si è osservato che la violenza cresce all'aumentare della repressione sessuale e del moralismo.
(Fonte: "naturale=buono?" Fuso S.)
Quindi, per favore, non diciamo che qualcosa è "naturale" solo perché rispecchia le nostre credenze e i pregiudizi con cui siamo cresciuti.
L'omosessualità è talvolta vista come una "devianza", una malattia, un disturbo, un capriccio, un vizio, un peccato, qualcosa di diverso, perciò negativo e che quindi va punito o eliminato, come tutto quello che non rientra nelle nostre categorie mentali.
La diversità ci fa paura, ci mette davanti a dubbi, insicurezze, domande e questo non ci piace per niente: eliminare la diversità per confermare la nostra "normalità" e sentirci uguali, normali, sicuri e tranquilli nei nostri pregiudizi confermati, nelle nostre categorie prestabilite.
Questo post vuole essere anche uno spunto per parlare della diversità, della difficoltà nell'accettare chi è "differente", chi ha valori, idee diversi dai nostri.
Perdere i punti di riferimento, gli schemi in cui incasellare le persone come giuste o sbagliate ci crea ansia e senso di smarrimento. Questa messa in discussione e accettazione dell'alterità ci fa rendere consapevoli del fatto che, alla fine, siamo tutti esseri umani ma ognuno di noi è unico e differente a modo suo.

lunedì 3 settembre 2018

Nazionalismo e ideologie

Tempo fa andava di moda mettere come cornice del profilo la scritta "sì ius soli" oppure "no ius soli" a seconda del proprio orientamento politico. Ora, la mia intenzione non è quella di sostenere una posizione a favore o contro questa proposta di legge (ormai archiviata, suppongo) ma quella di riflettere su ciò che sta alla base: cosa significa "sentirsi italiani"? E conseguentemente prendere in considerazione il nazionalismo, ovvero una ideologia che, personalmente, faccio fatica a comprendere e a condividere.
Da quando alle elementari ho iniziato a studiare storia ho cominciato a chiedermi: ma perché gli uomini erano obbligati ad andare in guerra gli uni contro gli altri? Che cosa sarebbe l'amore per la patria? Ma non si potevano usare soldi e risorse in modo diverso? Era necessario il sacrificio di tutte quelle vite? Perché devo sentirmi orgogliosa di essere italiana? Perché gli italiani sono superiori ai francesi, tedeschi, americani, giapponesi? Cosa distingue un italiano da un'altra persona di diversa nazionalità?
Deve esistere una specie di "italianità" interiore, magari nel DNA, che fa riconoscere un italiano? una "essenza" senza la quale la persona non può essere definita "italiana"?
Un italiano è colui che ha la cittadinanza italiana. Punto. Ok, ma cosa significa? A livello legislativo è comprensibile, ma a livello culturale sorgono molti interrogativi: ad esempio, un italiano deve avere determinate caratteristiche? Quali?
Saper cucinare la pasta? Conoscere la storia d'Italia? Parlare correttamente l'italiano? Indossare abiti alla moda?
Conosco persone che parlano un idioma a fatica definibile come "italiano" nonostante siano nate e cresciute qui (e non sanno chi sia Garibaldi).
Inoltre, un italiano che non mangia pasta o che mette l'ananas sulla pizza non è italiano?
Non è solo retorica sterile, è una questione che va analizzata da vari punti di vista per tentare almeno in parte di comprenderla.
È un discorso complesso che implica domande concernenti la nostra identità, le nostre credenze e i nostri presupposti ideologici.

lunedì 27 agosto 2018

Medici "alternativi"

Medici che propongono sedute di agopuntura ai loro pazienti, dentisti che millantano "specializzazioni" in dentosofia, pediatri che propongono alle madri di bimbi agitati qualche granello di zucchero omeopatico.
La domanda sorge spontanea: ma questi professionisti ci credono davvero in queste pseudo-cure o lo fanno per altri motivi?
Premetto subito che lascerò fuori dalla discussione tutti quei personaggi (per non usare parole peggiori) che professano cure senza fondamento a malattie gravi, impedendo che i pazienti si curino nel modo appropriato secondo la medicina basata sull'evidenza.
Quindi i criminali che dicono a persone gravemente malate di non fare la chemio perché ci pensano loro con il succo di limone a curarli li lasciamo altrove, in un posto più adatto.
Detto ciò, analizziamo brevemente qualche possibile risposta.
Se un medico ha studiato medicina, deve per forza di cose conoscere il metodo scientifico, la sua applicazione, i suoi limiti. Si presuppone inoltre che conosca pertanto come si svolga una ricerca in campo medico-scientifico, cosa sia un trial, come si interpretino i dati, quale si il ruolo della statistica, in cosa consistano le peer-review e via discorrendo.
Quindi se la comunità scientifica (e non un singolo medico o una singola ricerca) esprime un "verdetto" riguardo un determinato metodo di cura, si pensa che il medico in esame ne sia a conoscenza, visto che dovrebbero essere obbligatori anche dei corsi di aggiornamento.
Di conseguenza l'ignoranza non può essere una giustificazione, anche perché nel momento in cui viene prescritta una cura il medico deve essere a conoscenza di questa e reputarla la migliore per quel paziente in quella condizione. Ecco perché la cura delle patologie è di esclusiva competenza della classe medica: un non-medico non riceve tutta la preparazione necessaria a curare il paziente, insomma capita anche a medici affermati di sbagliare, figuriamoci a uno che non sia nemmeno ferrato in medicina!
Continuando con il discorso: se l'ignoranza non è una scusa, allora ci credono davvero o no?
Se un medico fosse realmente convinto dell'efficacia di tutta una serie di pratiche pseudo-scientifiche allora dovrebbe rinnegare gli anni che ha passato a studiare medicina e rinnegare anche il metodo scientifico. Insomma, le pratiche come l'omeopatia, l'agopuntura, la pranoterapia etc non sono tecniche che la medicina "ufficiale" non ha ancora dimostrato essere valide, ma sono metodi (tutt'altro che univoci e coerenti tra di loro) che la medicina scientifica ha già dimostrato non essere fondate.
Quindi non resta che una risposta: il medico è consapevole della mancanza di fondamento scientifico di queste "cure" ma probabilmente le utilizza (spesso in regime di libera professione) per l'effetto placebo solitamente positivo ma transitorio che hanno sulla persona, o tutt'alpiù per "accontentare" qualche paziente che vuole per forza prendere qualche "farmaco" perché sente di averne bisogno, per un disturbo che magari è passeggero o che non necessita di cure mediche (come ad esempio un raffreddore, oppure per tranquillizzare una mamma che vede il suo piccolo agitato per via dei dentini in crescita).
Certo non potrei mai pensare che un medico possa prescrivere cure inutili e invogliare gente a farsi bucare con aghi solo per trarne profitti personali, facendo credere a persone ingenue che le loro "cure speciali" possano combattere altrettanti "disturbi speciali" (Disequilibri energetici, congiunzioni astrali et similia), sono cose che fanno solo i "ciarlatani", non i professionisti della salute.
Quindi suppongo che chi lo faccia sia in buona fede, perché crede che quella sia la miglior cura per il paziente in quel momento, mosso da empatia e volontà di porre rimedio alle sofferenze di quella persona.
L'uso del placebo comporta però il sollevarsi di problemi di carattere etico, ma di questo ne parlerò in un altro post.

lunedì 20 agosto 2018

Paure e responsabilità

Osservando il mondo che ci circonda ho l'impressione di cogliere una tendenza a isolarci sempre di più, sta crescendo la diffidenza nei confronti dell' Altro.
L' alterità con le sue esperienze e i suoi valori lo troviamo spesso incomprensibile e ne abbiamo paura perché non lo conosciamo e questo timore genera rabbia e chiusura.
Nel mondo globalizzato di oggi riuscire a darsi un'identità può essere assai difficile.
Insomma, un tempo ci si riconosceva tranquillamente come "la moglie dell'idraulico", "il figlio del dottore", "la sorella del prete" e ognuno aveva già predisposto il suo futuro alla nascita, o comunque c'erano precise aspettative in merito.
Da una bambina ci si aspettava che aiutasse in casa la madre e una volta ragazza si sposasse con un uomo preferibilmente di classe sociale più agiata, sfornasse figli uno dietro l'altro, sperando che più della metà potesse arrivare all'età adulta, e passasse la vita a prendersi cura di casa, marito e figli.
Allo stesso modo un bambino era destinato a fare il lavoro del padre o a studiare per migliorare la situazione socio-economica della famiglia, per poi sposarsi e avere degli eredi.
Oggi non è più così, nel giro di un paio di generazioni la nostra società occidentale è cambiata moltissimo e la perdita di punti di riferimento e valori che un tempo erano considerati eterni è stata inevitabile.
Principalmente vedo due opposti schieramenti (riempiti da una scala di grigi intermedi).
Da un lato un nostalgico ritorno ad un passato idilliaco, puro, ordinato, dove la donna aveva il suo ruolo e l'uomo il suo: uno scenario piuttosto statico e conservatore che lascia poco spazio al confronto con la diversità e con il cambiamento.
Dall'altro vedo nuovi punti di vista, persone di tutte le età che vogliono continuare ad aprirsi al mondo, a nuovi orizzonti e possibilità, ben consapevoli del fatto che il nuovo è anche fonte di paure, insicurezze, a volte anche di fallimenti.
Questa seconda visione comporta una maggiore e faticosa presa di responsabilità dell'individuo, non più pre-determinato e pre-destinato da leggi sociali e politiche sopra il suo controllo.
È facile avere chi ci ordina di fare qualcosa, se non ci piace possiamo sempre incolpare l'autorità, se non siamo in grado di riuscire nel compito assegnatoci può non essere colpa nostra e in ogni caso non abbiamo altra scelta.
Responsabilizzare l'individuo, porlo in un mondo aperto, libero di intraprendere la sua strada (nel limite del rispetto reciproco e dei propri mezzi, ovviamente) crea una fonte di ansia incredibile, una paura visibile e un senso di smarrimento che provocano la nascita di domande a cui spesso non si riesce a trovare una risposta.
Ma questo significa crescere, no?

giovedì 9 agosto 2018

Tipologie di "Omeopersone"

Alcune persone (secondo l'istat sempre meno, fortunatamente) fanno uso di prodotti omeopatici. Ma questi individui lo fanno tutti per la stessa ragione? Sono tutti consapevoli di cosa si tratta?
Ovviamente no, altrimenti non ne farebbero uso, però secondo me possiamo distinguerli in due categorie: gli OMEO-INGENUI e gli OMEO-CREDENTI.
Mi spiego meglio.
Nel primo gruppo rientrano tutti quelli che fanno uso di omeopatia perché "me lo ha consigliato il farmacista", "sono prodotti naturali senza controindicazioni", "mio cugino che l'ha dato al figlio ha detto che ha funzionato" e via dicendo. Solitamente sono persone "normali", solo che non si sono mai poste veramente il problema di cosa siano davvero questi prodotti, spesso confondendoli con la fitoterapia o con una categoria di farmaci "leggeri" o ad azione preventiva (come nel caso dell'influenza stagionale).
Quindi usano i prodotti perché sostanzialmente si fidano dell'opinione della persona che glieli ha consigliati o prescritti.
Credo che questa tipologia di clientela sia la maggioranza, se venisse fatto il giusto lavoro di divulgazione scientifica e, con molta calma e pazienza, venissero spiegate loro le cose come stanno in realtà (lavoro che stanno già facendo i divulgatori scientifici), alla fine ci potrebbe essere una grande percentuale di successo con abbandono volontario dell'omeomagia. L'importante è non farli passare come degli stolti che credono a tutto quello che viene propinato loro ma come "vittime" più o meno consapevoli di un'abile strategia di marketing mirata ad approfittare dei bisogni delle persone.
Nella seconda categoria, gli omeocredenti, invece, rientrano tutte quelle persone appunto "credenti" che si comportano e vivono come fossero in una sorta di setta. Ragion per cui è molto difficile parlare con costoro di qualsiasi cosa, perché ti escono con esclamazioni del tipo "niente succede a caso" se racconti che sei rimasto in coda in tangenziale per un incidente, oppure che "il tuo destino della vita precedente si compirà in questa" se ti lasci sfuggire il fatto che non sei riuscito a concludere un contratto al lavoro. Solitamente questi individui fanno largo uso del pensiero magico, affidandosi all'astrologia, consultando guru, leggendo riviste pseudoscientifiche e guardano il mondo come se tutto fosse un complotto dei rettiliani, di Soros o che ne so.
Spesso per varie circostanze di vita, esperienze traumatiche varie sono arrivati ad avere una visione distorta del mondo e non la cambieranno mai perché gli serve per dare un senso ai traumi che hanno subìto.
La divulgazione scientifica viene sistematicamente ignorata oppure serve solo a rinforzare le proprie posizioni, come fosse il maligno che vuole mettere alla prova la loro fede.
Per costoro non credo ci sia molta speranza, a meno che non si rendano conto da soli della loro visione distorta del mondo, allora potranno avere tutto l'aiuto di cui hanno bisogno.
Preciso che queste categorie sono solo un modo di esporre il mio punto di vista, la realtà è complessa e ci sono sicuramente varie sfumature e zone grigie.

martedì 24 luglio 2018

Essere sovrappeso è una "colpa"?

Il sovrappeso e l'obesità stanno diventando un problema a livello sanitario nel mondo benestante ma anche in alcuni paesi in via di sviluppo.
Con questo post vorrei solo sollevare delle riflessioni, invitando a cercare nuovi punti di vista. Come sempre non voglio proporre soluzioni definitive, perché la situazione è complessa ed è impossibile conoscere in modo approfondito tutte le cause e concause legate al fenomeno.
Nel mondo medico si tende a trattare i pazienti in modo piuttosto semplicistico: sono sovrappeso perché mangiano più di quello che bruciano, ergo la soluzione è invertire il segno prescrivendo dieta adeguata ed esercizio fisico.
Se questa soluzione dovesse fallire (perché probabilmente il paziente è "pigro" o "troppo goloso") si cercheranno altre vie, quali farmaci e interventi chirurgici.
Non essendo medico ho solo dato un quadro generale, non è mia intenzione trattare delle procedure utilizzate, ma solo mettere in rilievo il fatto che spesso il problema viene ridotto a un problema di introito calorico eccessivo.
Spesso sento dire: "Ma basta che mangi di meno!!", "Vai in palestra!!", " "Ma non ti accorgi di quello che stai diventando?".
Allo stesso modo si potrebbe dire a una persona che soffre di anoressia: "ma non è difficile mangiare un piatto di pasta, dai!!", "stai un po' tranquilla anziché correre 10 km tutti i giorni". Oppure a un ragazzo depresso: "dai, su con la vita che il mondo è pieno di cose belle!". O ancora a un fumatore incallito: "ma non sai che fumare 2 pacchetti di sigarette al giorno ti fa morire?".
Ora, se il problema fosse solo la consapevolezza delle calorie, la giusta informazione che già si sta facendo avrebbe dovuto migliorare notevolmente la situazione. E invece sappiamo che non è così.
È molto molto più complesso e finché non si prenderanno in considerazione anche, e soprattutto, gli aspetti psicologici, sociali, emotivi e relazionali correlati a questa situazione allora non credo si noteranno miglioramenti.

giovedì 1 febbraio 2018

Ciò che mostro è quello che voglio mostrare

Pubblichiamo sui social solo alcuni aspetti di noi, frammenti della nostra esistenza, solo quello che vogliamo.
Ci facciamo una ventina di selfie ma scegliamo quello più fotogenico, mangiamo almeno tre volte al giorno ma postiamo solo le foto dei piatti dei ristoranti in cui andiamo ogni tanto.
Insomma, la maggior parte della nostra vita è taciuta, rimane nella privacy. E forse è proprio questa parte più nascosta la più fondamentale, quella che rivelerebbe davvero il nostro vero "io" , ma per qualche motivo non vogliamo esporla al mondo né agli "amici".
Vogliamo che gli altri ci vedano nel modo in cui vorremmo che ci vedessero, vogliamo trasmettere messaggi per alimentare un certo tipo di reazioni emotive, ci piace un sacco il fatto che il mondo sia d'accordo con il nostro punto di vista (e se non lo fosse è solo per il fatto che "non capisce nulla", è un "analfabeta funzionale"...).
In questo fiume il nostro ego cresce al crescere dei Like sotto ai nostri post.