lunedì 24 settembre 2018

I bisogni non sono tutti uguali


Un bisogno può essere definito genericamente come una condizione fisiologica di carenza e di necessità. Maslow (1954), in particolare, ha costruito una piramide dei bisogni, organizzati gerarchicamente in (partendo dalla base): fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di auto-realizzazione.
I bisogni primari sono quelli fisiologici, necessari per la sopravvivenza fisica (bere, mangiare...), mentre i secondari riguardano la sfera sociale e relazionale (appartenenza ad un gruppo sociale, sicurezza ed approvazione...).
I terziari, infine, sono transpersonali e riguardano l'autoaffermazione, sono legati alla promozione della salute e allo sviluppo psichico e spirituale. Ovviamente si tratta di bisogni tipicamente umani e mirano alla ricerca consapevole del significato della propria esistenza, in una costruzione continua tra se stessi e l'ambiente (inteso come tutto ciò che ci circonda) volta al miglioramento della qualità della vita.
Implicano quindi una esigenza di sviluppo, di crescita e di costruzione nonché condivisione di significati: tutto ciò si tramuta in una spinta interiore ineludibile volta a capire meglio se stessi e il mondo in cui viviamo.
Se i bisogni primari e secondari sono in qualche modo passivi e improntati sul soddisfacimento di carenze, quelli terziari richiedono un impegno attivo e in prima persona del soggetto, con tutte le difficoltà che ne conseguono.
Il passaggio al gradino più alto della gerarchia dei bisogni implica il soddisfacimento e l'affrancamento dai bisogni inferiori, in particolare per quanto riguarda quelli terziari è fondamentale aver sviluppato la consapevolezza che la propria vita non è solo un rincorrersi di bisogni o di carenze di qualsiasi tipo da soddisfare (come il bisogno di cambiare costantemente smartphone o comprare abiti nuovi tutti i sabati), quanto piuttosto la ricerca di qualcosa di positivo, che contribuisca a migliorare sé e il mondo, come l'esplorazione attiva della realtà, il senso del meraviglioso e la conoscenza di se stessi e degli altri.

lunedì 10 settembre 2018

L' omosessualità è "innaturale"?

Pochi giorni fa ho letto un articolo in cui spiegavano come in India una legge avesse abolito il reato di omosessualità.
Un reato, come quello di cui Oscar Wilde fu accusato ai suoi tempi e per cui è stato imprigionato: in carcere solo per aver osato amare un ragazzo.
Recentemente il Papa ha affermato che l'omosessualità andrebbe curata con la psichiatra, sempre che non venga "diagnosticata" in età adulta, in quel caso potrebbe essere cronica e incurabile.
Non sono né medico né psichiatra ma dubito fortemente che questo presunto "disturbo" rientri tra le patologie.
C'è poi chi si appella al fatto che avere rapporti con individui dello stesso sesso non sia "naturale", anzi, spesso è proprio questa la motivazione principale: sono atti "contro natura" (e quindi contro la legge di Dio, per i credenti).
Dunque, cosa si intende per "naturalità" della sessualità? "Gli animali non fanno certe cose! Non sono corrotti dal peccato, dai vizi di noi umani!".
Beh, a quanto mi risulta questo è solo un pregiudizio infondato, in quanto in moltissime specie di animali (si stima intorno alle 1.500) sono stati osservati comportamenti sessuali tra individui di pari genere. Ma non solo, si verificano anche episodi frequenti di autoerotismo, uso di sex toys, bisessualità, rapporti orali, prostituzione, orge, necrofilia, pedofilia, rapporti tra specie differenti e voyeurismo. (Ovviamente questo non legittima gli stessi comportamenti nell'uomo, visto che siamo dotati di libero arbitrio e senso etico).
I bonobo, ad esempio, sono pansessuali e risolvono spesso le tensioni attraverso atti sessuali anziché con la violenza.
Anche nelle società umane si è osservato che la violenza cresce all'aumentare della repressione sessuale e del moralismo.
(Fonte: "naturale=buono?" Fuso S.)
Quindi, per favore, non diciamo che qualcosa è "naturale" solo perché rispecchia le nostre credenze e i pregiudizi con cui siamo cresciuti.
L'omosessualità è talvolta vista come una "devianza", una malattia, un disturbo, un capriccio, un vizio, un peccato, qualcosa di diverso, perciò negativo e che quindi va punito o eliminato, come tutto quello che non rientra nelle nostre categorie mentali.
La diversità ci fa paura, ci mette davanti a dubbi, insicurezze, domande e questo non ci piace per niente: eliminare la diversità per confermare la nostra "normalità" e sentirci uguali, normali, sicuri e tranquilli nei nostri pregiudizi confermati, nelle nostre categorie prestabilite.
Questo post vuole essere anche uno spunto per parlare della diversità, della difficoltà nell'accettare chi è "differente", chi ha valori, idee diversi dai nostri.
Perdere i punti di riferimento, gli schemi in cui incasellare le persone come giuste o sbagliate ci crea ansia e senso di smarrimento. Questa messa in discussione e accettazione dell'alterità ci fa rendere consapevoli del fatto che, alla fine, siamo tutti esseri umani ma ognuno di noi è unico e differente a modo suo.

lunedì 3 settembre 2018

Nazionalismo e ideologie

Tempo fa andava di moda mettere come cornice del profilo la scritta "sì ius soli" oppure "no ius soli" a seconda del proprio orientamento politico. Ora, la mia intenzione non è quella di sostenere una posizione a favore o contro questa proposta di legge (ormai archiviata, suppongo) ma quella di riflettere su ciò che sta alla base: cosa significa "sentirsi italiani"? E conseguentemente prendere in considerazione il nazionalismo, ovvero una ideologia che, personalmente, faccio fatica a comprendere e a condividere.
Da quando alle elementari ho iniziato a studiare storia ho cominciato a chiedermi: ma perché gli uomini erano obbligati ad andare in guerra gli uni contro gli altri? Che cosa sarebbe l'amore per la patria? Ma non si potevano usare soldi e risorse in modo diverso? Era necessario il sacrificio di tutte quelle vite? Perché devo sentirmi orgogliosa di essere italiana? Perché gli italiani sono superiori ai francesi, tedeschi, americani, giapponesi? Cosa distingue un italiano da un'altra persona di diversa nazionalità?
Deve esistere una specie di "italianità" interiore, magari nel DNA, che fa riconoscere un italiano? una "essenza" senza la quale la persona non può essere definita "italiana"?
Un italiano è colui che ha la cittadinanza italiana. Punto. Ok, ma cosa significa? A livello legislativo è comprensibile, ma a livello culturale sorgono molti interrogativi: ad esempio, un italiano deve avere determinate caratteristiche? Quali?
Saper cucinare la pasta? Conoscere la storia d'Italia? Parlare correttamente l'italiano? Indossare abiti alla moda?
Conosco persone che parlano un idioma a fatica definibile come "italiano" nonostante siano nate e cresciute qui (e non sanno chi sia Garibaldi).
Inoltre, un italiano che non mangia pasta o che mette l'ananas sulla pizza non è italiano?
Non è solo retorica sterile, è una questione che va analizzata da vari punti di vista per tentare almeno in parte di comprenderla.
È un discorso complesso che implica domande concernenti la nostra identità, le nostre credenze e i nostri presupposti ideologici.