sabato 30 novembre 2019

Perché viaggiare?

Avete mai guardato uno di quei video girati da qualche youtuber straniero che ha vissuto in Italia e parla della sua esperienza nel Belpaese?
Devo confessare che guardo spesso questo genere di contenuti, che trovo molto divertenti ma che, oltre al lato legato all'intrattenimento, ci possono fornire anche degli spunti di riflessione.
Osservandoci da un punto di vista esterno, proveniendo da un diverso contesto culturale, ci fanno notare cose che magari noi diamo per scontate, a cui non pensiamo o che crediamo siano valori assoluti universali.
Una cosa divertente, ad esempio, è il fatto che all'estero non sanno cosa sia un "colpo d'aria". Insomma, noi diciamo spesso cose del tipo: "chiudi la finestra o rischi di prendere un colpo d'aria" o anche "ho un po' di raffreddore, avrò preso un colpo d'aria". Beh da questi video ho notato che in America e in Giappone questa cosa non esiste!
In effetti la patologia "colpo d'aria" non c'è, è una cosa che diciamo magari per cercare una causa ai nostri disturbi. Ora, non sono un medico e spero di non dire castronerie, però a quanto ne so il raffreddore è causato da un virus e non dal freddo.
Questo è solo un aneddoto, magari anche un po' banale, ma che ci fa riflettere sul fatto che tante nostre credenze sono appunto solo delle credenze e non dei valori universalmente validi.
Tante volte tendiamo a sopravvalutare o a sottovalutare le nostre risorse e le nostre capacità solo perché non ci confrontiamo davvero con la diversità.
Se restiamo confinati nella nostra bolla, nella nostra zona di comfort, a crogiolarci su quanto siamo bravi, belli e intelligenti, vivremo in un mondo illusorio che non ci offrirà nessuna possibilità di miglioramento.
Uno dei motivi per cui è importante viaggiare (avendone la possibilità) è proprio questo: il confronto con altre culture (non necessariamente esotiche) ci rende consapevoli dei nostri pregiudizi e del nostro limitato modo di vedere il mondo.

giovedì 28 novembre 2019

La scienza, questa sconosciuta.

"Ascoltare quello che dice l'O.M.S. mi raccomando!! Bisogna allattare al seno, lo confermano gli studi scientifici, l'intera comunità scientifica è d'accordo sul fatto che sia meglio il latte della mamma piuttosto che quello formulato."

*Scroscianti applausi.*
Però quando lo stesso O.M.S. dice che la stessa comunità scientifica di cui sopra è concorde con il fatto che i vaccini vadano fatti come da calendario...
*Apriti cielo!!*
Sapete come si chiama questa cosa?
Confirmation Bias. Ovvero noi tendiamo a selezionare, a condividere e a ritenere giuste e accettabili solo le notizie, le opinioni, i fatti e i dati che confermano la nostra visione del mondo.
Poco importa se la realtà non è come la vorremmo...noi vogliamo che sia così.

"E perché succede questo?"
Per vari meccanismi, tra i quali il Confirmation Bias, un errore radicato nel nostro modo di pensare e che fa parte della nostra natura. Sappiamo che nessuno vuole mettere in discussione la propria identità, le proprie credenze perché questo vorrebbe dire rivedere in una nuova prospettiva le scelte fatte finora, prendere decisioni nuove, affrontare la paura dell'ignoto e del cambiamento. Questa cosa ci spaventa molto, ovviamente, per cui spesso il confirmation bias ci fa selezionare solo le informazioni che ci fanno sentire in accordo con noi stessi e il nostro limitato punto di vista.

"Esiste una soluzione?"
L'unico "riparo" è quello della consapevolezza, diventare consapevoli dei limiti del nostro modo di vedere il mondo.

"Come si ottiene questa presa di consapevolezza?"
Tramite il confronto con gli altri, aprendosi con spirito critico a punti di vista differenti al nostro e mettendoci continuamente in discussione.
La maggior parte delle volte non siamo consapevoli delle nostre credenze errate, non possiamo essere esperti di tutto. Vi racconto di una mia credenza di cui sono diventata consapevole qualche tempo fa.
Allora, fondamentalmente bevevo solo acqua della bottiglia e mai dei rubinetto. Perché? Perché pensavo che l'acqua calcarea delle mie zone non facesse bene alla salute, che potesse far venire i calcoli a causa dell'elevato tasso di calcare. Credenza diffusissima a quanto ne so, ma decisamente sbagliata.
 Il calcare non è altro che calcio, lo stesso che prendiamo magari con gli integratori. E come ho fatto a capirlo? Guardando il video di Dario Bressanini sull'acqua (cercatelo su you-tube), in cui lo spiegava molto bene. Ho lasciato da parte i miei pregiudizi e ho pensato "in effetti questa cosa ha senso". 

"Prima accennavi alla comunità scientifica, perché ti fidi?"
Perché so come lavorano, detto in parole semplici. Gli errori, gli sbagli e le cattive intenzioni ci possono sempre essere, ma esistono dei meccanismi per cui i controlli sono molto elevati grazie alla trasparenza dei metodi.
Immaginate di dover sistemare l'impianto elettrico di casa vostra, chi chiamate? Ovviamente un elettricista di cui vi fidate, perché sapete "come lavora". 
Insisto molto sul metodo scientifico proprio perché questo è lo strumento migliore che abbiamo per indagare la realtà, perché ci fa diventare consapevoli dei nostri pregiudizi, delle nostre credenze, della nostra voglia di aver ragione ad ogni costo, anche interpretando i dati come più ci piace.
La scienza è un metodo di indagine della realtà, non una serie di assiomi da accettare acriticamente. Non c'è mai nulla di certo, ovvio (se non nella matematica) ma si cerca sempre la spiegazione che si adatta meglio ai fatti, ai dati. Anche se questa spiegazione non ci piace, ce ne dovremo fare una ragione perché siamo noi a dover capire e adattarci alla realtà e non è il mondo che deve essere come lo vogliamo noi. Altrimenti resteremo sempre confinati nel nostro pensiero magico e desiderativo, tipico dei bambini. 

"Eh ma io non le sapevo mica tutte queste cose..."
Purtroppo manca una conoscenza base dei principi del metodo scientifico, della logica, della capacità di dialogare in modo critico che a scuola non viene mai insegnata.


(Scriverò qualcosa in proposito in futuro)

giovedì 30 maggio 2019

La coerenza vince sulla verità


Immaginiamo di essere degli esseri umani primitivi (la visione stereotipata di quelli che si vestivano con le pelli di animale e dormivano nelle caverne va benissimo) che vanno in giro per il bosco a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
Ad un tratto vediamo un altro uomo che stramazza a terra incapace di respirare e, ovviamente, ci spaventiamo moltissimo. Non potendo chiamare un’ambulanza (no, i Flinstone non li consideriamo storicamente attendibili) notiamo qualcosa di inusuale: il moribondo stava mangiando delle bacche blu a noi sconosciute. Cosa deduciamo da questa scena orribile? Le bacche blu non si devono mangiare perché fanno stare malissimo, e io non voglio stare male. Nessuno dovrà mangiare queste bacche blu.
Abbiamo creato un legame causale tra due eventi correlati, che si sono verificati quasi simultaneamente e forse abbiamo imparato ad evitare un pericolo.
O ancora, sentiamo dei rumori tra un cespuglio, ci spaventiamo perché potrebbe essere un animale feroce e ce la diamo a gambe levate. Magari era solo un animaletto innocuo oppure un fruscio causato dal vento ma subito pensiamo al peggio. Perché? Beh, per un semplice motivo: meglio evitare un finto pericolo che rischiare un possibile vantaggio.
Se invece io vi dicessi che quelle bacche blu erano solo innocui nonché gustosissimi mirtilli? Il poveretto è morto perché qualche tempo prima aveva mangiato dei funghi velenosi, inconsapevole ovviamente della loro tossicità. Ma il nostro osservatore non ha visto la scena precedente e ha fatto una deduzione erronea, proprio perché mancante di una visione complessa, completa e articolata della realtà circostante.
Andiamo un pochino più avanti nel tempo, a fine Ottocento. Un medico che curava i suoi pazienti affetti da una malattia diffusa somministrando acqua e zucchero osservò che ne sopravvivevano di più rispetto a quelli curati in modo tradizionale (con purghe e salassi).
Quindi al medico viene naturale creare una relazione causale: i miei rimedi curano la malattia. La realtà, sappiamo oggi, era ben differente: acqua e zucchero erano sostanze innocue, mentre torturare i pazienti con purghe e salassi non faceva altro che debilitare un individuo con la salute già compromessa.
Questa creazione di legami causali dettati da una necessità di dare una coerenza, una spiegazione a eventi correlati o simultanei si può spiegare da un punto di vista evoluzionistico legato alla sopravvivenza, come già affermato in precedenza, ed è alla base dell’apparente efficacia di molte pseudo-medicine e pratiche alternative come l’omeopatia.
Ho già parlato in vari articoli precedenti di omeopatia ma qui vorrei solo sottolineare il fatto che il rimedio omeopatico si somministra soprattutto per disturbi che trovano una loro naturale guarigione: in questo caso basta aspettare e nel momento in cui la persona sarà guarita verrà attribuito il merito al rimedio. Si dice che un raffreddore guarisca in 10 giorni da solo e in una settimana e mezza con l’omeopatia (o con acqua e limone, o acqua e bicarbonato, o recitando “il cinque maggio” di Manzoni alle sette e mezza del mattino).
Osserviamo due eventi che accadono in tempi ravvicinati e creiamo un nesso causale senza essere a conoscenza di tutte le possibili variabili che avrebbero potuto interferire. Per cui mangio i miei granuletti quando ho il raffreddore e dopo qualche giorno guarisco. È merito dei granuli.
Mi pappo a colazione tutto inverno il mio Oscillocoso e non prendo l’influenza. È merito dei granuli.
Ho preso l’influenza nonostante abbia speso duecento euro in Oscillocosi. Beh, poteva andarmi peggio, se non avessi preso i granuli magari sarei finita in ospedale.
Oppure si somministra l’omeopatia insieme ad altri farmaci con evidenze scientifiche: la febbre si sarà abbassata con il paracetamolo o grazie al miracoloso rimedio? Un bias molto forte in questi casi è quello di voler attribuire il merito della guarigione ai granuli di zucchero e i possibili effetti collaterali al farmaco assunto.
Abbiamo speso dei soldi per i granuli, inoltre la pubblicità e l’amica del cuore ce li hanno vivamente consigliati, poi abbiamo sentito delle storie (delle narrazioni, appunto, non dei seri studi scientifici, super difficili da capire, noiosi e che richiedono fatica al nostro caro cervellino per capirci qualcosa) e degli aneddoti che descrivevano situazioni prodigiose, emotivamente cariche, coerenti con la nostra visione del mondo e da cui ci siamo lasciati subito convincere.
Il nostro cervello, infatti, ragiona più per narrazioni e storie che per strutture logico-razionali derivate da una conoscenza innata delle leggi della statistica e della matematica. Quello che conta è che la storiella che ci raccontiamo abbia una sua coerenza interna, una fluidità che la faccia apparire come qualcosa di sensato e scorrevole, facile da comprendere e da incasellare. Odiamo dover faticare, mettere in discussione le nostre intuizioni (che non sono sempre così geniali come sembrano), usare la logica e la razionalità.
Ci affidiamo ai pochi elementi che confermano la nostra teoria e ce li facciamo bastare.
Ci sono moltissimi altri possibili esempi, tutta la nostra vita è “viziata” da bias (errori) cognitivi di cui siamo totalmente inconsapevoli e non sappiamo nemmeno riconoscerli il più delle volte, o quando ci riusciamo, grazie soprattutto al confronto con gli altri e con il loro differente punto di vista, non li vogliamo accettare, li rifiutiamo in toto perché andrebbero a minare le nostre credenze e la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo.
Non solo “sappiamo di non sapere” ma addirittura “non sappiamo di non sapere”, non siamo consapevoli della nostra ignoranza, della nostra mancanza di una visione complessa della realtà. Pensiamo con il risparmio energetico: dividere il mondo in buoni o cattivi, in bianco e nero, usando una classificazione dicotomica è un’operazione che contempla poche categorie mentali e poca fatica nella rappresentazione del mondo. Pensare che “le multinazionali sono tutte cattive e invece quelli che vendono omeopatici lo fanno per il bene del mondo” semplifica in un modo impressionante il lavoro di comprensione della nostra vita. Certo, si avrà una visione erronea e parecchio viziata ma il nostro cervello è tranquillo e beato.
Manchiamo di una visione complessa della realtà e cerchiamo di classificare il mondo secondo i nostri schemi precostituiti che danno forma alla nostra visione coerente della realtà, in cui la nostra vita assume un significato preciso a priori. Ma come abbiamo visto la coerenza e la fluidità cognitiva non rispecchiano la realtà ma solo il nostro limitato punto di vista.
Abbiamo paura di ciò che non capiamo, siamo spaventati da un mondo che potrebbe non rientrare nei nostri desideri, nelle nostre aspettative. Allora che fare? Ci possiamo chiudere a guscio in una realtà parziale, in una piccola nicchia in cui tutto è come lo vogliamo noi, ma il mondo potrebbe un giorno bussarci alla porta o catapultarsi nella nostra esistenza in un modo che noi non avevamo previsto né voluto e regalarci un bello shock.
Oppure, con molta pazienza, confrontandoci con gli altri e con i loro differenti punti di vista, possiamo informarci da più fonti diverse, metterci costantemente in discussione, ponendoci le giuste domande e cercando possibili risposte, con il sudore della fronte, cercare ogni giorno di non dare nulla per scontato, di essere scettici e curiosi e di abbracciare la complessità del mondo provando ad essere sempre un po' migliori.

Bibliografia per approfondire:
Kahneman D. Pensieri lenti e veloci. 2013. Mondadori.

venerdì 15 marzo 2019

L'incredibile storia del signor Phineas e di Mr. Hide.


In un soleggiato e caldo pomeriggio nel New England, precisamente il 13 settembre 1848 ad un giovane e atletico ragazzo di venticinque anni, Phineas P. Gage, successe qualcosa di terribile e incredibile allo stesso tempo.
Caposquadra di un’impresa di costruzioni edili, era da tutti descritto come un uomo molto preciso, corretto con gli altri, dedito al suo lavoro e ben educato ma ad un certo punto, per una piccola distrazione mentre stava preparando un esplosivo, un oggetto metallico gli perforò il cranio.
L’arma in questione era una sbarra di ferro di 6 kg, lunga 110 cm, con diametro di poco più di 3 cm che Phineas teneva saldamente in mano: questa, a causa dell’improvvisa e accidentale esplosione, penetrò nella sua guancia sinistra, forò la base della scatola cranica, attraversò la parte frontale del cervello ed uscì dalla sommità della testa.
Ovviamente il povero malcapitato morì sul colpo.
E invece no.
Incredibilmente Gage sopravvisse e restò addirittura cosciente, tant’è che fu portato dal medico (il dottor John Harlow) della città vicina restando seduto sulla vettura. Il paziente raccontò in modo lucido e consapevole l’accaduto e la ferita venne pulita con i prodotti dell’epoca, cercando di ricucirla e di curarla al meglio, anche se il rischio di infezioni era alto, data l’inesistenza di antibiotici.
Il corpo di Gage sopravvisse riportando come danno fisico la perdita della vista dell’occhio sinistro (vedeva bene con il destro) riusciva a parlare senza problemi e la deambulazione non era particolarmente compromessa.
Ma i danni peggiori furono i forti cambiamenti del carattere non appena fu superata la fase acuta della lesione cerebrale: le conseguenze a livello della sua personalità furono devastanti e permanenti.
I suoi amici e conoscenti dissero che “non era più Gage”.
Definito dal suo medico “bizzarro, insolente, capace a volte delle più grossolane imprecazioni da cui in precedenza era stato del tutto alieno” un ragazzo perbene, educato, a modo, impegnato nel suo lavoro e riconosciuto dagli altri come tale, si era in seguito trasformato in un uomo insofferente, incapace di mantenere un lavoro stabile, dedito ai vizi e all’alcol, incapace di provvedere a se stesso e di pensare al suo futuro.
La condotta esemplare che teneva prima dell’incidente sembrava essere svanita, non vi era più alcun rispetto per le convenzioni sociali e per l’etica. Sembrava che avesse dimenticato completamente tutto ciò che aveva imparato sulla morale e sul comportamento adeguato da adottare in una società civile.
Ovviamente non venne più riassunto al suo precedente lavoro, non tanto per le sue capacità o abilità lavorative risultate un po' più ridotte, quanto per il suo carattere incostante e impulsivo che lo fecero licenziare presto da ogni lavoro intrapreso. Arrivò persino ad unirsi ad una compagnia circense per guadagnarsi da vivere, facendo mostra della sua ferita in cambio di denaro.
Dopo aver raggiunto la sorella in California morì a soli 38 anni per un forte attacco epilettico.
I medici e gli studiosi di metà Ottocento non riuscirono a comprendere cosa fosse successo di preciso a Gage, soprattutto non potevano spiegare il motivo di un cambiamento così radicale e permanente della sua personalità.
All’epoca era impensabile sostenere che il comportamento sociale richiedesse una particolare regione cerebrale corrispondente, così come succede per il movimento, il linguaggio o i sensi.
La mente e il corpo erano visti sostanzialmente come separati: non si accettava il punto di vista per cui qualcosa di strettamente legato all’anima umana o alla cultura potesse dipendere in maniera significativa da un sostrato organico come una particolare regione cerebrale.
Oggi sappiamo che il cambiamento di personalità fu dovuto a una lesione cerebrale circoscritta in un sito specifico, infatti ricerche moderne hanno evidenziato come la compromissione del rispetto delle regole sociali sia causata da un danno selettivo alle cortecce prefrontali del cervello. Questi dati sono stati ricavati anche grazie all’analisi del cranio del paziente riesumato cinque anni dopo la sua morte, su richiesta del dottore che lo seguì in vita, il già citato John Harlow e analizzati recentemente tramite ricostruzione tridimensionale al computer.
Volendo approfondire il discorso, è possibile porsi domande come: Phineas Gage era dotato di libero arbitrio? Era responsabile di quello che faceva? Era consapevole del fatto che avesse perso la sua capacità di pianificare il futuro come essere sociale? Che cos’è, nel cervello, che consente agli esseri umani di comportarsi in modo razionale? E come opera?

Bibliografia per approfondire:
Damasio Antonio R. L’errore di Cartesio. Adelphi Edizioni. 1995.

mercoledì 23 gennaio 2019

"Ignore this story"


Immaginiamo di aprire la nostra bella app di Instagram e andiamo a vedere che storie nuove circolettate ci sono da guardare. Ne apriamo una e, su un fondo bianco, leggiamo le parole “Ignora questa storia”.
Ah, cioè? Ma non è possibile ignorare questa storia perché ormai io l’ho già vista. E quindi?
Ecco, questo è un esempio di quello che si definisce “doppio vincolo” o “double bind” o ancora “doppio legame”. Attenzione, però, non confondiamoci con il doppio legame che i chimici conosceranno bene, ovvero quel legame che coinvolge un numero doppio di elettroni rispetto ad un legame singolo (se volete approfondire vi consiglio di chiedere meglio a qualcuno con competenze in materia superiori alle mie, ho vaghissimi ricordi di quello che ho studiato al liceo parecchi anni fa).
Benissimo, per quanto riguarda il doppio legame in psicologia, questo è stato studiato e approfondito da Gregory Bateson[1] e dalla scuola di Palo Alto (in California) negli anni Sessanta del secolo scorso, anche se il primo articolo è stato pubblicato nel 1956 insieme a D.D. Jackson, J. Weakland e J. Haley.
Il doppio vincolo si verifica quando ci si trova in una situazione per cui qualunque cosa fai, stai sbagliando. Insomma, si creano due richieste contraddittorie per cui una persona asserisce qualcosa e asserisce qualcosa sull’asserzione, ma le due asserzioni si contraddicono a vicenda. Per ubbidire devi disobbedire.
Vi ho fatto venire il mal di testa? Lo immaginavo.
Un esempio di doppio vincolo è quando una persona comunica un messaggio preciso a livello verbale e il suo opposto a livello non verbale, oppure quando il comando contraddice sé stesso: quante volte i nostri genitori ci hanno detto “devi essere spontaneo!”. Bene, la spontaneità non può essere comandata, se qualcuno ti obbliga ad essere spontaneo allora tu non sei più spontaneo ma stai eseguendo un ordine che viene impartito da un’altra persona.
Bateson ha fatto molti esempi di doppio vincolo e ha approfondito questo paradosso comunicativo soprattutto per quanto riguarda l’eziologia della schizofrenia.
Ci tengo a precisare che la scuola di Palo Alto non ha mai affermato di aver trovato la causa unica di questa grave patologia né mai affermato che il doppio vincolo “causi” la schizofrenia, piuttosto ha voluto discutere di come e perché un doppio vincolo possa insorgere in una certa situazione familiare, fornendo esempi tratti da casi clinici nel saggio “Verso una teoria della schizofrenia” del 1956.
La novità introdotta da Bateson e collaboratori è stata quella di adottare un punto di vista differente da quello allora predominante, ossia la visione legata alla psicoanalisi per cui la schizofrenia sia innanzitutto un disturbo intrapsichico (qualcosa che “non funziona bene” nella singola persona).
Anziché vedere la patologia come qualcosa di “sbagliato” all’interno della persona che poi provoca un comportamento deviante, l’approccio batesoniano è inverso: si domanda quali esperienze interpersonali (quindi le relazioni esterne con altre persone) provocherebbero il comportamento che poi è interpretato e diagnosticato come schizofrenia.
È una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere la patologia: anziché considerare il singolo soggetto il discorso si amplia e si sposta sulle dinamiche relazionali, soprattutto familiari.
Se ipotizziamo che il comportamento dell’individuo sia in qualche modo adattivo all’ambiente in cui vive allora lo schizofrenico vive in una situazione paradossale per cui il suo modo di fare è appropriato al contesto.
Quindi, visto che il modo di comportarsi della persona appare come qualcosa di incomprensibile, allora le relazioni in cui vive dovranno riflettere questa incomprensibilità, ovvero saranno caratterizzate dal doppio vincolo.
In “Pragmatica della comunicazione umana” (pag. 202) sono individuati gli elementi indispensabili per descriverlo:
1.       “Due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte.”
2.       “In un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni si escludono a vicenda”.
3.       “Si impedisce al recettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio”
Detto in altri termini: le relazioni che coinvolgono il soggetto devono essere significative e vitali, se uno sconosciuto dovesse adottare questo tipo di comunicazione con noi probabilmente verrebbe ignorato o comunque non avrebbe grossi impatti su noi stessi.
I messaggi devono essere contraddittori e devono creare una situazione per cui è impossibile eseguire ciò che ci viene richiesto.
Infine non deve essere possibile metacomunicare, cioè parlare della comunicazione, ovvero dire alla persona: “ma che cavolo stai dicendo, non vedi che tu mi poni in una situazione per cui qualunque cosa faccia sbaglio sempre?”.
Ovviamente questo genere di comunicazione paradossale deve svilupparsi per molto tempo, in particolar modo dall’infanzia, in cui deve prevalere questo specifico modello di interazione.
Il poveretto si ritrova quindi in una situazione in cui il comportamento schizofrenico diventa l’unico modo in cui possa esprimersi.
A questo proposito, un bel film che consiglio di guardare è “Shine”, 1996, diretto da Scott Hicks, ambientato in Australia agli inizi degli anni Sessanta, racconta la vita di un pianista inserito in una relazione paradossale con la sua famiglia, che lo costringe a manifestare un comportamento patologico.
Alla fine, oltre al discorso della schizofrenia, perché ci interessa questo aspetto della comunicazione? Ho voluto approfondire il doppio vincolo anche come occasione per riflettere sugli aspetti comunicativi e sulle modalità di interazione che noi e gli altri usiamo tutti i giorni.
Spesso, infatti, facciamo fatica a comunicare sulla comunicazione (metacomunicare): se qualcuno ci dice verbalmente qualcosa ma non verbalmente dice l’opposto, siamo spinti a cercare di comprendere il messaggio in modi differenti piuttosto che rivelare il paradosso esprimendolo a voce alta.
Magari crediamo che ci siamo lasciati sfuggire qualcosa che in realtà dovevamo sapere, o che altri ci tengano nascoste informazioni vitali, diventando ossessionati dalla necessità di scoprire significati nascosti in ciò che ci accade intorno, ignorando magari i veri problemi reali, del tutto inconsapevoli della contraddizione che la situazione comporta.

Bibliografia per approfondire:
-          Beavin J.H., Jackson D.D., Watzlawick P. Pragmatica della comunicazione umana. 1971, Casa editrice Astrolabio.
-          Bateson G. Verso un’ecologia della mente. 1976, Apelphi.



[1] Bateson è stato un biologo, antropologo, sociologo e psicologo britannico e i suoi studi hanno spaziato tra diverse discipline, apportando parecchi punti di vista innovativi soprattutto per quanto riguarda la terapia allora dominante in ambito psicoterapeutico, fortemente legata alla psicanalisi, contribuendo alla nascita della terapia sistemico-relazionale.


giovedì 3 gennaio 2019

Ma a me cosa interessa? Ovvero l'importanza della divulgazione


Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, siamo immersi in un contesto sociale e culturale in cui diventa davvero fondamentale lo sviluppo di un pensiero critico, per mettere sempre in discussione quello che ci sembra scontato. Insomma, circondati come siamo da claim, marketing, eccesso di informazioni, fake news, bufalari, aspiranti dominatori del mondo et similia, abbiamo bisogno più che mai di un po' di sano scetticismo (e anche di un po' di sana autoironia, data la cospicua presenza sul web di musoni sempre all’attacco, ma questo è un altro discorso).
E chi meglio del metodo scientifico accompagnato dallo sviluppo di un pensiero critico e non auto-confermante può aiutarci in questo processo senza fine? Già, perché quello della continua messa in discussione delle nostre credenze e dell’approfondimento della comprensione del mondo in cui viviamo è un processo infinito, non esiste una meta in cui saremo sicuri di sapere tutto (anzi, probabilmente sarà il momento di maggiore sbaglio) perché “più cose scopriamo e più domande ci facciamo” per citare Rick Dufer.
Dunque, se davvero il nostro obiettivo è quello di migliorare noi stessi e magari incoraggiare le persone a noi vicine a fare altrettanto, personalmente credo che seguire e approfondire più discipline, parlare con persone differenti, aprirsi al mondo e a nuove opportunità conoscitive con vari mezzi (non solo libri ma anche film, serie tv, podcast, video…) possa essere una delle strategie per essere un pochino più curiosi del mondo e di noi stessi.
Inoltre oggi è fondamentale creare un “ponte” tra la comunità scientifica e le persone “comuni” per varie ragioni.
In primo luogo, per quanto riguarda la ricerca finanziata con i soldi pubblici, è auspicabile che le persone vengano informate sulle modalità e gli scopi per cui i finanziamenti statali siano utilizzati, in modo tale da ricevere una sorta di “restituzione” da parte dei ricercatori.
In secondo luogo informare in modo corretto ed esaustivo le persone sulla ricerca scientifica in corso penso che possa aiutare a prevenire eventuali episodi di ribellione e tentativi di elaborare varie “teorie del complotto” del genere “non cielo dikono” perché chissà che cose strane e malvagie si celano nei laboratori o chissà che scoperte sensazionali sono state fatte ma la malvagia lobby (peraltro inesistente) di una non meglio precisata Comunità Scientifica vuole insabbiare per tornaconto personale. Episodi di questo genere si sono già verificati e i mass media hanno amplificato il fenomeno per catturare l’attenzione e l’audience. Ecco, spesso esiste questa visione dello “scienziato pazzo, sadico e malvagio” probabilmente ereditata dall’immaginario di Frankenstein in cui il perfido dottore voleva andare contro le leggi di Dio e della Natura creando la vita da dei cadaveri.
In passato vi erano ovviamente meno controlli nella ricerca scientifica, si faceva tutto un po' così, senza norme precise in materia di etica o di sicurezza. E infatti ci sono state sicuramente conseguenze negative, ma da qualche tempo a oggi la situazione è cambiata: sono stati istituiti comitati etici e stringenti norme in materia di sicurezza per cui la ricerca è fatta secondo il principio di precauzione. E questo è stato un vero traguardo nella ricerca per renderla il più equa e sicura possibile, cosa che purtroppo non accade in altri posti fuori dall’UE. (in Cina e in altri paesi le regole sono differenti e le tutele sono minori)
 Molti scenari caratterizzati da una forte carica emotiva restano a lungo nella memoria collettiva e culturale, pensiamo ad esempio in tempi più recenti all’orribile mondo degli organismi geneticamente modificati: fragole che sanno di pesce, pomodori che contengono antigelo, ortaggi giganti e creature strane che domineranno il mondo se non verranno controllate. Faccio davvero fatica a trovare persone senza competenze in materia di biotecnologie che posseggano informazioni anche solo lontanamente vicine alla verità su questi OGM.
Divulgare il metodo scientifico, le metodologie utilizzate, la presenza costante di comitati etici e di sicurezza a controllo della ricerca diventa fondamentale in un mondo in cui le fake news e la “misinformation” dominano spesso le discussioni. Certamente esisteranno complotti, sicuramente ci sono in gioco degli interessi economici di un certo livello ma il mondo è molto più complesso di come si possa credere, esistono varie sfumature di grigio ed è difficile che un complotto non venga prima o poi a galla.
Divulgare significa anche creare delle occasioni di dubbi, in cui la persona capisce di non aver capito, quindi potrebbe essere spinta ad approfondire l’argomento, se sufficientemente interessata. Oppure, nel caso di ragazzi giovani, potrebbe far nascere in loro la passione per un determinato ambito scientifico o umanistico e potrà indirizzarli meglio in merito alle loro scelte universitarie e professionali.
Se diamo un occhio ai social network (Facebook, Instagram, You Tube, Telegram…) ci rendiamo conto che la gente vuole sapere, ha bisogno di trovare un significato a ciò che gli accade, ma ha anche la necessità che questo gli venga spiegato non con un linguaggio tecnico e specialistico ma più vicino alla narrazione.
E questo lo sanno benissimo i costruttori di teorie pseudoscientifiche e alternative: per un non addetto ai lavori trovarsi davanti una risma di studi scientifici in inglese che non si sa seppure leggere o interpretare correttamente è estremamente meno interessante e coinvolgente di una singola narrazione, carica emotivamente, che “spiega” tutto in poche frasi apparentemente coerenti.
Ed è così che è facilissimo assomigliare al memabile pikachu sorpreso quando sembra che il guru di turno abbia fatto la scoperta del secolo, basandosi su dati magari corretti ma stravolgendone il senso o scambiando la correlazione per la causalità. Insomma, è come decorare con la ghiaccia reale colorata una torta a tre piani fatta di polistirolo: esteticamente è meravigliosa, colpisce l’occhio ma non provarci nemmeno a tagliarne una fetta o l’illusione sparirebbe in un lampo di amarezza, lasciandoci la bocca asciutta e la delusione di chi è stato ingannato.
Quindi, ripeto, la divulgazione oggi, in tutti i campi del sapere, è necessaria più che mai, soprattutto per renderci consapevoli che tutti, scienziati compresi (ecco perché esistono cose carine come la peer review o le revisioni sistematiche: un solo studio non significa nulla, deve essere replicato e confermato o confutato e criticato da altri studi di altri ricercatori) siamo suscettibili di fare errori, di cadere nei bias e nelle illusioni cognitive, perché il nostro punto di vista è parziale e determinato dalle nostre esperienze e dai nostri modi di pensare e di vedere la realtà.
Rendersi conto di quanto poco sappiamo e di quanto siamo limitati può contribuire a invogliarci ad approfondire, a non credere acriticamente al primo ciarlatano, anche se le sue “argomentazioni” sembrano avere senso ma non esistono delle prove valide a sostegno.
Un bravo divulgatore dovrebbe utilizzare un linguaggio comprensibile e sfruttare anche la carica emotiva trasmessa dalla sua personale passione verso la disciplina al fine di fornire gli strumenti (come il pensiero critico, lo scetticismo…) alle persone affinché queste acquisiscano le capacità per cercarsi da soli le risposte alle loro domande, conoscendo sempre un pochino meglio il mondo circostante e loro stesse.
In questa accezione il soggetto è visto come un soggetto attivo, capace di un deutero apprendimento per citare Bateson, non come un passivo fruitore di contenuti da memorizzare per aumentare la propria erudizione personale.