Immaginiamo di aprire la nostra bella app di Instagram e
andiamo a vedere che storie nuove circolettate ci sono da guardare. Ne apriamo
una e, su un fondo bianco, leggiamo le parole “Ignora questa storia”.
Ah, cioè? Ma non è possibile ignorare questa storia perché
ormai io l’ho già vista. E quindi?
Ecco, questo è un esempio di quello che si definisce “doppio
vincolo” o “double bind” o ancora “doppio legame”. Attenzione, però, non
confondiamoci con il doppio legame che i chimici conosceranno bene, ovvero quel
legame che coinvolge un numero doppio di elettroni rispetto ad un legame
singolo (se volete approfondire vi consiglio di chiedere meglio a qualcuno con
competenze in materia superiori alle mie, ho vaghissimi ricordi di quello che
ho studiato al liceo parecchi anni fa).
Benissimo, per quanto riguarda il doppio legame in
psicologia, questo è stato studiato e approfondito da Gregory Bateson
e dalla scuola di Palo Alto (in California) negli anni Sessanta del secolo
scorso, anche se il primo articolo è stato pubblicato nel 1956 insieme a D.D.
Jackson, J. Weakland e J. Haley.
Il doppio vincolo si verifica quando ci si trova in una
situazione per cui qualunque cosa fai, stai sbagliando. Insomma, si creano due
richieste contraddittorie per cui una persona asserisce qualcosa e asserisce
qualcosa sull’asserzione, ma le due asserzioni si contraddicono a vicenda. Per ubbidire
devi disobbedire.
Vi ho fatto venire il mal di testa? Lo immaginavo.
Un esempio di doppio vincolo è quando una persona comunica
un messaggio preciso a livello verbale e il suo opposto a livello non verbale,
oppure quando il comando contraddice sé stesso: quante volte i nostri genitori
ci hanno detto “devi essere spontaneo!”. Bene, la spontaneità non può essere
comandata, se qualcuno ti obbliga ad essere spontaneo allora tu non sei più
spontaneo ma stai eseguendo un ordine che viene impartito da un’altra persona.
Bateson ha fatto molti esempi di doppio vincolo e ha
approfondito questo paradosso comunicativo soprattutto per quanto riguarda
l’eziologia della schizofrenia.
Ci tengo a precisare che la scuola di Palo Alto non ha mai
affermato di aver trovato la causa unica di questa grave patologia né mai
affermato che il doppio vincolo “causi” la schizofrenia, piuttosto ha voluto
discutere di come e perché un doppio vincolo possa insorgere in una certa
situazione familiare, fornendo esempi tratti da casi clinici nel saggio “Verso
una teoria della schizofrenia” del 1956.
La novità introdotta da Bateson e collaboratori è stata
quella di adottare un punto di vista differente da quello allora predominante,
ossia la visione legata alla psicoanalisi per cui la schizofrenia sia
innanzitutto un disturbo intrapsichico (qualcosa che “non funziona bene” nella
singola persona).
Anziché vedere la patologia come qualcosa di “sbagliato”
all’interno della persona che poi provoca un comportamento deviante,
l’approccio batesoniano è inverso: si domanda quali esperienze interpersonali
(quindi le relazioni esterne con altre persone) provocherebbero il comportamento che poi è interpretato e
diagnosticato come schizofrenia.
È una vera e propria rivoluzione nel modo di intendere la
patologia: anziché considerare il singolo soggetto il discorso si amplia e si
sposta sulle dinamiche relazionali, soprattutto familiari.
Se ipotizziamo che il comportamento dell’individuo sia in
qualche modo adattivo all’ambiente in cui vive allora lo schizofrenico vive in
una situazione paradossale per cui il suo modo di fare è appropriato al
contesto.
Quindi, visto che il modo di comportarsi della persona
appare come qualcosa di incomprensibile, allora le relazioni in cui vive
dovranno riflettere questa incomprensibilità, ovvero saranno caratterizzate dal
doppio vincolo.
In “Pragmatica della comunicazione umana” (pag. 202) sono
individuati gli elementi indispensabili per descriverlo:
1.
“Due o più persone sono coinvolte in una
relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica
per una di esse, per alcune, o per tutte.”
2.
“In un simile contesto viene dato un messaggio
che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b) asserisce
qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni si escludono a
vicenda”.
3.
“Si impedisce al recettore del messaggio di
uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio”
Detto in altri termini: le relazioni che coinvolgono il
soggetto devono essere significative e vitali, se uno sconosciuto dovesse
adottare questo tipo di comunicazione con noi probabilmente verrebbe ignorato o
comunque non avrebbe grossi impatti su noi stessi.
I messaggi devono essere contraddittori e devono creare una
situazione per cui è impossibile eseguire ciò che ci viene richiesto.
Infine non deve essere possibile metacomunicare, cioè
parlare della comunicazione, ovvero dire alla persona: “ma che cavolo stai
dicendo, non vedi che tu mi poni in una situazione per cui qualunque cosa
faccia sbaglio sempre?”.
Ovviamente questo genere di comunicazione paradossale deve
svilupparsi per molto tempo, in particolar modo dall’infanzia, in cui deve
prevalere questo specifico modello di interazione.
Il poveretto si ritrova quindi in una situazione in cui il
comportamento schizofrenico diventa l’unico modo in cui possa esprimersi.
A questo proposito, un bel film che consiglio di guardare è
“Shine”, 1996, diretto da Scott Hicks, ambientato in Australia agli inizi degli
anni Sessanta, racconta la vita di un pianista inserito in una relazione
paradossale con la sua famiglia, che lo costringe a manifestare un
comportamento patologico.
Alla fine, oltre al discorso della schizofrenia, perché ci
interessa questo aspetto della comunicazione? Ho voluto approfondire il doppio
vincolo anche come occasione per riflettere sugli aspetti comunicativi e sulle
modalità di interazione che noi e gli altri usiamo tutti i giorni.
Spesso, infatti, facciamo fatica a comunicare sulla
comunicazione (metacomunicare): se qualcuno ci dice verbalmente qualcosa ma non
verbalmente dice l’opposto, siamo spinti a cercare di comprendere il messaggio
in modi differenti piuttosto che rivelare il paradosso esprimendolo a voce
alta.
Magari crediamo che ci siamo lasciati sfuggire qualcosa che
in realtà dovevamo sapere, o che altri ci tengano nascoste informazioni vitali,
diventando ossessionati dalla necessità di scoprire significati nascosti in ciò
che ci accade intorno, ignorando magari i veri problemi reali, del tutto
inconsapevoli della contraddizione che la situazione comporta.
Bibliografia per
approfondire:
-
Beavin J.H., Jackson D.D., Watzlawick P. Pragmatica della comunicazione umana.
1971, Casa editrice Astrolabio.
-
Bateson G. Verso
un’ecologia della mente. 1976, Apelphi.