Immaginiamo di essere degli
esseri umani primitivi (la visione stereotipata di quelli che si vestivano con
le pelli di animale e dormivano nelle caverne va benissimo) che vanno in giro
per il bosco a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
Ad un tratto vediamo un altro
uomo che stramazza a terra incapace di respirare e, ovviamente, ci spaventiamo
moltissimo. Non potendo chiamare un’ambulanza (no, i Flinstone non li
consideriamo storicamente attendibili) notiamo qualcosa di inusuale: il
moribondo stava mangiando delle bacche blu a noi sconosciute. Cosa deduciamo da
questa scena orribile? Le bacche blu non si devono mangiare perché fanno stare
malissimo, e io non voglio stare male. Nessuno dovrà mangiare queste bacche blu.
Abbiamo creato un legame causale
tra due eventi correlati, che si sono verificati quasi simultaneamente e forse
abbiamo imparato ad evitare un pericolo.
O ancora, sentiamo dei rumori tra
un cespuglio, ci spaventiamo perché potrebbe essere un animale feroce e ce la
diamo a gambe levate. Magari era solo un animaletto innocuo oppure un fruscio
causato dal vento ma subito pensiamo al peggio. Perché? Beh, per un semplice
motivo: meglio evitare un finto pericolo che rischiare un possibile vantaggio.
Se invece io vi dicessi che
quelle bacche blu erano solo innocui nonché gustosissimi mirtilli? Il poveretto
è morto perché qualche tempo prima aveva mangiato dei funghi velenosi,
inconsapevole ovviamente della loro tossicità. Ma il nostro osservatore non ha
visto la scena precedente e ha fatto una deduzione erronea, proprio perché
mancante di una visione complessa, completa e articolata della realtà
circostante.
Andiamo un pochino più avanti nel
tempo, a fine Ottocento. Un medico che curava i suoi pazienti affetti da una
malattia diffusa somministrando acqua e zucchero osservò che ne sopravvivevano
di più rispetto a quelli curati in modo tradizionale (con purghe e salassi).
Quindi al medico viene naturale creare
una relazione causale: i miei rimedi curano la malattia. La realtà, sappiamo
oggi, era ben differente: acqua e zucchero erano sostanze innocue, mentre
torturare i pazienti con purghe e salassi non faceva altro che debilitare un
individuo con la salute già compromessa.
Questa creazione di legami
causali dettati da una necessità di dare una coerenza, una spiegazione a eventi
correlati o simultanei si può spiegare da un punto di vista evoluzionistico
legato alla sopravvivenza, come già affermato in precedenza, ed è alla base
dell’apparente efficacia di molte pseudo-medicine e pratiche alternative come
l’omeopatia.
Ho già parlato in vari articoli
precedenti di omeopatia ma qui vorrei solo sottolineare il fatto che il rimedio
omeopatico si somministra soprattutto per disturbi che trovano una loro
naturale guarigione: in questo caso basta aspettare e nel momento in cui la
persona sarà guarita verrà attribuito il merito al rimedio. Si dice che un
raffreddore guarisca in 10 giorni da solo e in una settimana e mezza con
l’omeopatia (o con acqua e limone, o acqua e bicarbonato, o recitando “il
cinque maggio” di Manzoni alle sette e mezza del mattino).
Osserviamo due eventi che
accadono in tempi ravvicinati e creiamo un nesso causale senza essere a
conoscenza di tutte le possibili variabili che avrebbero potuto interferire. Per
cui mangio i miei granuletti quando ho il raffreddore e dopo qualche giorno
guarisco. È merito dei granuli.
Mi pappo a colazione tutto
inverno il mio Oscillocoso e non prendo l’influenza. È merito dei granuli.
Ho preso l’influenza nonostante
abbia speso duecento euro in Oscillocosi. Beh, poteva andarmi peggio, se non
avessi preso i granuli magari sarei finita in ospedale.
Oppure si somministra l’omeopatia
insieme ad altri farmaci con evidenze scientifiche: la febbre si sarà abbassata
con il paracetamolo o grazie al miracoloso rimedio? Un bias molto forte in
questi casi è quello di voler attribuire il merito della guarigione ai granuli
di zucchero e i possibili effetti collaterali al farmaco assunto.
Abbiamo speso dei soldi per i
granuli, inoltre la pubblicità e l’amica del cuore ce li hanno vivamente
consigliati, poi abbiamo sentito delle storie (delle narrazioni, appunto, non
dei seri studi scientifici, super difficili da capire, noiosi e che richiedono
fatica al nostro caro cervellino per capirci qualcosa) e degli aneddoti che
descrivevano situazioni prodigiose, emotivamente cariche, coerenti con la
nostra visione del mondo e da cui ci siamo lasciati subito convincere.
Il nostro cervello, infatti,
ragiona più per narrazioni e storie che per strutture logico-razionali derivate
da una conoscenza innata delle leggi della statistica e della matematica.
Quello che conta è che la storiella che ci raccontiamo abbia una sua coerenza
interna, una fluidità che la faccia apparire come qualcosa di sensato e
scorrevole, facile da comprendere e da incasellare. Odiamo dover faticare,
mettere in discussione le nostre intuizioni (che non sono sempre così geniali
come sembrano), usare la logica e la razionalità.
Ci affidiamo ai pochi elementi
che confermano la nostra teoria e ce li facciamo bastare.
Ci sono moltissimi altri
possibili esempi, tutta la nostra vita è “viziata” da bias (errori) cognitivi
di cui siamo totalmente inconsapevoli e non sappiamo nemmeno riconoscerli il
più delle volte, o quando ci riusciamo, grazie soprattutto al confronto con gli
altri e con il loro differente punto di vista, non li vogliamo accettare, li
rifiutiamo in toto perché andrebbero
a minare le nostre credenze e la percezione che abbiamo di noi stessi e del
mondo.
Non solo “sappiamo di non sapere”
ma addirittura “non sappiamo di non sapere”, non siamo consapevoli della nostra
ignoranza, della nostra mancanza di una visione complessa della realtà.
Pensiamo con il risparmio energetico: dividere il mondo in buoni o cattivi, in
bianco e nero, usando una classificazione dicotomica è un’operazione che
contempla poche categorie mentali e poca fatica nella rappresentazione del
mondo. Pensare che “le multinazionali sono tutte cattive e invece quelli che
vendono omeopatici lo fanno per il bene del mondo” semplifica in un modo
impressionante il lavoro di comprensione della nostra vita. Certo, si avrà una
visione erronea e parecchio viziata ma il nostro cervello è tranquillo e beato.
Manchiamo di una visione
complessa della realtà e cerchiamo di classificare il mondo secondo i nostri
schemi precostituiti che danno forma alla nostra visione coerente della realtà,
in cui la nostra vita assume un significato preciso a priori. Ma come abbiamo visto la coerenza e la fluidità cognitiva
non rispecchiano la realtà ma solo il nostro limitato punto di vista.
Abbiamo paura di ciò che non
capiamo, siamo spaventati da un mondo che potrebbe non rientrare nei nostri
desideri, nelle nostre aspettative. Allora che fare? Ci possiamo chiudere a
guscio in una realtà parziale, in una piccola nicchia in cui tutto è come lo
vogliamo noi, ma il mondo potrebbe un giorno bussarci alla porta o catapultarsi
nella nostra esistenza in un modo che noi non avevamo previsto né voluto e
regalarci un bello shock.
Oppure, con molta pazienza, confrontandoci
con gli altri e con i loro differenti punti di vista, possiamo informarci da
più fonti diverse, metterci costantemente in discussione, ponendoci le giuste
domande e cercando possibili risposte, con il sudore della fronte, cercare ogni
giorno di non dare nulla per scontato, di essere scettici e curiosi e di
abbracciare la complessità del mondo provando ad essere sempre un po' migliori.
Bibliografia per approfondire:
Kahneman D. Pensieri lenti e veloci. 2013. Mondadori.